Ha 22 anni, la pelle d’ebano, e alle spalle già una lunghissima vita. Un percorso tortuoso e irto, che da un piccolo villaggio della Nigeria l’ha condotta a Caserta, in una piccola casetta uguale a tante altre, dove altre donne, le Orsoline del Sacro cuore di Maria, oggi si stanno prendendo cura di lei. Faith, questo il suo nome, è bella ma soprattutto è forte. È coraggiosa, perché malgrado le macerie che si lascia alle spalle, oggi stringe felice una penna, mentre impara a leggere e scrivere per la prima volta, e spera di poter ricostruire il suo futuro.
NEW YORK TIMES. La storia di Faith, una delle migranti giunta in Italia a bordo di uno dei tanti barconi approdati sulle coste siciliane, a tempi.it la racconta un’altra donna forte come lei, suor Rita Giaretta. Suor Rita è vicentina, a Caserta è arrivata vent’anni fa e ha fondato Casa Rut, il centro che oggi ha salvato Faith e la ospita (come raccontato anche dal New York Times). «Sono vicentina, e sono arrivata qui con altre due consorelle nel 1996. La nostra congregazione è originaria di Breganza e Vicenza, è molto piccola e viva e abbiamo capito che il sud del nostro paese di fatto era già allora una periferia del mondo, fatta di miseria ed emarginazione, in cui impegnarsi, così siamo arrivate qui. Non avevamo nessun progetto fatto a “tavolino” al nord».
LA DOMIZIANA. All’inizio, continua suor Rita, «abbiamo incontrato il vescovo Raffaele Nogaro, che per primo ci ha fatto conoscere questa realtà non facile, fatta di camorra, di famiglie molto povere, e dove persino tra alcuni sacerdoti permane una visione “clientelare”. Dato che qui all’epoca c’era un carcere, il primo impegno che ci siamo date è stato quello di seguire le detenute. La metà delle donne erano straniere. La direttrice dell’epoca ci raccontò che la gran parte di loro avrebbe potuto essere fuori, ma non poteva permettersi un buon avvocato, e il carcere diventava una sorta di accoglienza alternativa. Così cercammo di capire da dove arrivassero tutte queste donne. Fu allora che iniziammo a conoscere la realtà della domiziana».
LE “MADAME”. L’8 marzo del 1997, invece, suor Rita decise di andarle a incontrare con alcune consorelle. «Ricordo che avevamo caricato una macchina di vasetti di primule, un fiore vivo, che poteva essere curato, perché il messaggio che volevamo dare era proprio una richiesta di prendersi cura le une delle altre. Abbiamo incontrato 50 ragazze. In loro c’era molto spavento. Qualcuna, vedendo la nostra auto avvicinarsi, si alzava incuriosita dal bidone su cui era seduta, qualcun’altra ci guardava scettica, mentre io mostravo il crocifisso, e dicevo: “Don’t worry”. Ma poi ci salutarono e ci chiesero anche di tornare. Abbiamo deciso di farlo una volta alla settimana. Man mano hanno iniziato a fidarsi, a raccontarci, si alzavano la maglietta e ci mostravano i segni di percosse, di botte, di bruciature di sigarette. Ci dicevano: “Noi di soldi non vediamo nulla. Noi dobbiamo dare a loro i soldi”. Chiedevamo a chi. Allora le nigeriane ci parlarono delle “madame”».
LA TRATTA AUMENTA. Le “madame” nigeriane sono donne che vivono in Italia e che comprano le loro connazionali, pagando loro il viaggio, per poi farle prostituire qui. Non sono loro a gestire il traffico della prostituzione, ma lo coordinano e lo fanno quasi con efficienza, si potrebbe dire. Da quel ’97, prosegue suor Rita, la Casa Rut è nata per strappare alla strada e alle madame le «schiave del sesso». Attraverso una cooperativa sociale, la New Hope, le ragazze imparano a lavorare come sarte e a mantenersi. «Ma la tratta delle schiave, anziché diminuire, è aumentata vertiginosamente negli ultimi anni, con lo scoppio di nuove guerre in Africa», spiega suor Rita.
FAITH. Faith a Casa Rut è arrivata il 9 gennaio di quest’anno. Viene da un piccolo villaggio nigeriano. Suo padre era cieco e lei doveva aiutare la famiglia. Così, ancora adolescente, si trasferì a Lagos, la principale città commerciale nel sud del paese. Lì lavorava come parrucchiera, ma non aveva nemmeno una casa. La notte dormiva al mercato aperto della città, al mattino si lavava nelle docce pubbliche e poi andava a lavorare, tutto pur di mandare dei risparmi alla famiglia. Nemmeno quando è rimasta incinta – per un rapporto occasionale – cambiò vita: diede alla luce il bambino, lo portò al villaggio dai genitori e continuò a lavorare come parrucchiera per pochi spiccioli. Un giorno però una cliente le fece una proposta: le suggerì di andare in Italia, anticipandole le spese del viaggio, dove Faith avrebbe potuto lavorare come parrucchiera, guadagnando molto. A Faith non sembrava vero. Una settimana dopo, la cliente le consegnò un passaporto falso, dicendole che l’indomani un pullman sarebbe partito. A bordo avrebbe trovato un gruppo di altre nove donne, scortate da due uomini, con cui avrebbe fatto il viaggio.
DAL DESERTO AL BARCONE. Così Faith e le altre ragazze dopo tre giorni di viaggio giunsero in Niger, ad Agedez, la porta del deserto. Da lì, camuffate con abiti islamici femminili, con il capo totalmente coperto, le donne vennero fatte salire su un camion, stipato di persone, e così attraversarono il deserto, sfamandosi solo con qualche biscotto e poche gocce d’acqua al giorno. Una notte il camion fu fermato da alcuni uomini in divisa: per riprendere il viaggio, le nove donne dovettero subire la prima violenza carnale, il prezzo per passare la dogana. Giunte a Homs, porto della Libia settentrionale, vennero stipate in una casa con altri futuri migranti. Vennero costrette a prostituirsi per pagare il “biglietto” del viaggio appena fatto nel deserto e per la successiva traversata in mare.
L’INCIDENTE. Dopo varie traversie, un giorno una donna disse a Faith di prepararsi a ripartire. Dall’Italia una madame l’aveva “comprata”. «Dei tre giorni di viaggio in mare sul barcone ricordo solo il vomito, l’angoscia, e la preghiera continua», racconta Faith. Approdata in Sicilia in compagnia di un’altra ragazza in contatto telefonico con la “madame”, Faith riuscì a fuggire al centro di prima accoglienza e a raggiungere Caserta. Una settimana dopo si è ritrovata sulla Domiziana con tante altre connazionali. È stato un incidente, la salvezza di Faith. Si trovava in auto con altre ragazze, quando l’auto sbandò, lei rimase gravemente ferita. La portarono all’ospedale, e la abbandonarono lì. Un medico, curandola, si è impietosito: le ha parlato di Casa Rut e le ha dato l’indirizzo. Le ha detto: «Decidi tu cosa vuoi fare. Spetta solo a te, decidere».
«LA NUOVA FAMIGLIA». Suor Rita racconta: «La mattina del 9 gennaio, uscite dalla cappella dopo la recita delle lodi, abbiamo aperto il portone di casa e ci siamo ritrovate davanti una ragazza, seduta a terra, con la testa fasciata». Da allora sono passati cinque mesi, «Faith oggi studia l’italiano e ha imparato a cucire. Ha ripreso a sentire suo figlio al telefono. Oggi sogna di portarlo qui con lei e di mantenersi con il suo lavoro. Ha ricominciato a sperare. Sono queste donne il nostro coraggio: non appena si sentono accolte, riprendono ad avere fiducia nella vita, malgrado quello che hanno vissuto. Molte di loro hanno scoperto di essere incinte, una volta giunte qui. Ma più che per una “predica” moralista, hanno scelto di tenere il loro bambino, perché per la prima volta hanno saputo di poter contare su qualcuno che le sostiene. Hanno saputo che questo luogo era la loro nuova famiglia».