Il diritto a non emigrare e i numeri di un fenomeno epocale
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Articolo tratto dal numero di Tempi di luglio (vai alla pagina degli abbonamenti) – È difficile affrontare il tema dell’immigrazione senza cadere in eccessi estremistici, senza lasciarsi prendere da una polemica che spesso sui social, ma anche fra le diplomazie degli Stati, sfocia in rissa almeno verbale. Credo sia necessario disegnare una cornice di princìpi, entro i quali affrontare eventualmente il discorso.
Partiamo dalla persona. Ogni migrante lo è e deve essere riconosciuto e trattato come tale. E ogni persona ha diritto di cercare soluzioni migliori per la vita propria e della famiglia di cui è responsabile. Da questo punto di vista, l’Italia ha avuto finora un comportamento esemplare, soprattutto da parte del mondo cattolico e in genere del mondo del volontariato, che non hanno mai mancato di generosità.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”] IL DIRITTO A VIVERE IN PATRIA. Accanto al diritto della persona di emigrare vi è anche quello di non emigrare, cioè di trovare nella propria patria le risorse per vivere e migliorare. Scrisse Benedetto XVI nel “Messaggio per la giornata del migrante e del rifugiato” del 2013: «Nel contesto socio-politico attuale, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il beato Giovanni Paolo II che “diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione” (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998)». Questo secondo aspetto stenta a penetrare nei ragionamenti di molti che sono impegnati nel volontariato, così come il tema della criminalità che utilizza la tragedia dell’immigrazione per incrementare i propri guadagni. Sono temi che non possono essere elusi perché sono questioni reali e la realtà è sempre più importante dell’idea, senza per questo mettere in discussione la nobiltà di chi si sacrifica per chi soffre.
OLTRE DUECENTO MILIONI DI MIGRANTI. In secondo luogo guardiamo i numeri. Li prendo da un testo di monsignor Agostino Marchetto che è stato per anni segretario del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. Secondo i dati che riporta in un intervento al XXXVI seminario internazionale degli studi storici del 2016, ci sarebbero stati 200 milioni di persone che hanno lasciato i loro paesi per cercare dove vivere meglio: si tratta del 3 per cento della popolazione mondiale. Secondo il rapporto Onu del 2017, sarebbero aumentati fino a 258 milioni (Repubblica, 19.12.17).
Stiamo parlando di un numero enorme di persone, mentre noi abbiamo in mente i 629 profughi a bordo della nave Aquarius rifiutati da Malta, che non sono sbarcati in Italia ma a Valencia. È chiaro che rappresentano un evento simbolico importante che tra l’altro ha permesso all’Italia di portare alla luce l’ipocrisia della Ue e di altri paesi, come la Francia, disposti soltanto a “parlare” di profughi, ma non ad accoglierli neppure in minima parte. Tuttavia, i numeri ci dicono che siamo di fronte a un fenomeno immenso, che caratterizzerà un’epoca, che non può essere risolto dai singoli Stati, né costruendo muri né facendo finta di niente, ma neppure cavalcando ideologicamente il fenomeno per incrementare le proprie sconfitte elettorali o per scompaginare l’identità di un paese.
BUON SENSO CONTRO LA DEMAGOGIA. E allora? Allora rimane il buon senso, che è la versione popolare del senso comune. Rimane che bisogna convincersi, contro la demagogia ideologica da una parte, che esiste un bene comune costruito su una identità culturale che va protetta, e dall’altra che fa parte di questa identità accogliere e integrare, come la storia ci ha insegnato, contro l’egoismo e l’individualismo.
Tutto questo non fornisce in modo automatico nessuna soluzione tecnica ai grandi problemi politici legati all’immigrazione, anche se forse potrebbe aiutare a comprendere la natura strumentale e sbagliata dell’aggressività che ha colpito il nuovo governo italiano, sia dall’interno che dall’esterno del paese. Ma questa è la dottrina sociale della Chiesa, come ha spiegato la Congregazione per la dottrina della fede: «La Chiesa attraverso la sua dottrina sociale offre un insieme di princìpi di riflessione e di criteri di giudizio, e quindi di direttive di azione, perché siano realizzati quei profondi cambiamenti che le situazioni di miseria e di ingiustizia esigono, e ciò sia fatto in un modo che contribuisca al vero bene degli uomini» (Istruzione su libertà cristiana e liberazione, 1986, n. 72).
Foto Ansa
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