Il Belgio gli nega i rimborsi per le cure, padre chiede l’eutanasia
Chiede l’eutanasia perché non può permettersi le cure: a tanto è arrivato Cristophe nel suo civilissimo Belgio che gli ha negato il rimborso di un farmaco necessario ad affrontare la sua malattia. L’uomo è giovane, ha quattro figli ma ha anche l’emoglobinuria parossistica notturna (Epn), una rara e degenerativa patologia del sangue. Gli è stata diagnosticata a 17 anni: un giorno è andato in bagno ed è caduto in coma. Al risveglio, all’ospedale universitario di Charleroi, ha scoperto di avere un’aspettativa di vita tra i 5 e i 20 anni.
«I MIEI FIGLI MI PERDERANNO»
Ben presto i sintomi della malattia, caratterizzata dalla distruzione dei globuli rossi, infinita stanchezza, sangue nelle urine e trombosi, iniziano a intralciare il suo lavoro alla Duferco: ricoverato a più riprese, l’azienda siderurgica finisce per licenziarlo. Tuttavia la malattia non gli impedisce di diventare padre, un padre spesso ospedalizzato e sotto analgesici, ma un padre di quattro bambini. È a loro che pensa costantemente Cristophe dal giorno in cui ha concluso che l’unico altare rimasto a cui votarsi era quello della morte di Stato: «Mi perderanno», più della malattia, della costante mancanza di respiro e del dolore costante è questo a soffocarlo, «ciò che mi fa veramente male è sapere che mi perderanno».
LA BUROCRAZIA SCARTA CHRISTOPHE
La vicenda è stata raccontata da Rtl Belgio: per migliorare e allungare la sua vita, spiegano i medici, è necessario che l’uomo si sottoponga a un trapianto di midollo osseo, oppure ad un trattamento a base di Soliris. Dopo un’infruttuosa ricerca di un donatore compatibile tra famigliari («hanno provato con mia sorella, mio fratello, i miei genitori, ma nessuno lo era»), abbandonata la via del trapianto Cristophe opta quindi per il trattamento. Che però ha un prezzo salatissimo: sei mesi di cure costano circa 50 mila euro, «so che non mi salverebbe, ma mi consentirebbe di vivere altri dieci anni con i miei figli».
Questa volta però a vanificare le sue speranze ci pensa la burocrazia: per accedere al rimborso di un farmaco “orfano” come il Soliris (cioè destinato alla cura di malattie talmente rare da non consentire la realizzazione, da parte delle aziende farmaceutiche, di ricavi che permettano di recuperare i costi sostenuti per il loro sviluppo), bisogna mettersi in lista. Solo chi passa una prima selezione può inoltrare richiesta al Consiglio dei medici che decideranno chi può beneficiare del rimborso delle cure e chi no. Da quando il Soliris è stato approvato per il trattamento dell’emoglobinuria parossistica notturna (Epn) e della sindrome emolitico-uremica atipica (Seua), circa sessanta pazienti hanno ricevuto il rimborso e potuto accedere ai trattamenti (riconosciuti a 29 persone solo nel 2018). Ma Cristophe è stato scartato: la sua richiesta è stata respinta prima ancora di potere essere valutata dal Consiglio.
DALLO SCARTO ALLA RICHIESTA DI EUTANASIA
Senza trattamento la malattia ha guadagnato terreno, «ogni mattina, quando mi sveglio, la mia urina è nera come il caffè», dice Cristophe, le ghiandole linfatiche gonfie, il fegato dolente. Due anni fa si è separato dalla madre dei suoi figli, «dovevo restituirle la sua libertà, ero di troppo, dormivo tutto il tempo». Oggi riceve i bimbi solo nel fine settimana, sempre alla presenza dei suoi genitori, «se cado in coma, non possono essere i miei figli di 4, 6, 7 e 10 anni a chiamare un’ambulanza». È qui, in quella che per lui ormai è diventata una prigione, che Cristophe ha iniziato tre anni fa a sentirsi uno scarto e pensare all’eutanasia. Ha già fatto tutti i passaggi per ottenerla. Vive dormendo, in attesa di risposta.
Il caso di Cristophe potrebbe dunque un giorno rientrare negli oltre 2.300 fascicoli di casi di eutanasia vagliati dalla Commissione di controllo federale (secondo studi di Lancet e British Medical Journal, nelle Fiandre viene riportato però alla Commissione solo il 50 per cento delle eutanasie effettuate): fascicoli che nel 2018 hanno attestato che nel 61,4 per cento dei casi a spingere al suicidio le persone è stata la diagnosi di un tumore, nel 18,6 per cento (oltre 400 persone) una polipatologia non terminale e nel 2,4 per cento dei casi problemi di depressione o disagio mentale.
«DATEMI ALTRI DIECI ANNI CON I MIEI FIGLI»
Gli effetti della normalizzazione dell’eutanasia non sono attestati solo dall’esponenziale aumento dei fascicoli (in Belgio oggi si muore eutanasizzati dieci volte di più di 15 anni fa), ma dal dilagare costante della nuova religione dell’autodeterminazione a scapito di ogni umana solidarietà. Se fino ad oggi aiutare un aspirante suicida si traduceva per il singolo e la comunità in una presa in carico concreta capace di mantenerlo in vita, ebbene oggi, in Belgio, solidarietà significa porgere un bicchiere o praticare un’iniezione letale. Perché l’eutanasia è diventata un atto medico, una delle possibili opzioni del fine vita nell’ambito delle cure palliative. Da qui a liberarsi della responsabilità morale e della sofferenza anche di chi desidera vivere, «se non altro per passare altri dieci anni con i miei figli», il passo è stato brevissimo.
DAL DIRITTO AL DOVERE DI MORIRE
Molte miglia al di là delle Fiandre, dall’altra parte dell’oceano, in Canada, Roger Foley affetto da atassia cerebrale sta subendo un pressing dalla sanità pubblica che lo ha posto davanti all’aut aut definitivo: pagare più di 1.500 dollari al giorno per le cure di cui ha bisogno oppure ricorrere gratuitamente al suicidio assistito. «Ma io voglio vivere, non morire» è il grido disperato di Foley. In California Stephanie Packer, madre di quattro figli, si è vista rifiutare nel 2016 le cure dalla sua assicurazione: «Prima che la legge sull’eutanasia entrasse in vigore erano disposti a pagare. Dopo l’approvazione del suicidio assistito però, mi hanno detto che siccome non mi rimaneva molto da vivere, non avrebbero coperto il costo delle cure per la mia sclerodermia», dichiarò al Washington Times, «Hanno però aggiunto che se avessi scelto il suicidio assistito avrei dovuto pagare solo un dollaro e venti centesimi». Nelle Fiandre la drammatica vicenda di Cristophe racconta qualcosa in più: perché aiutare a vivere persone che senza costrizioni e senza alternative riconoscono nella morte procurata l’unica terapia possibile alla sofferenza?
Foto Joel Bubble Ben/Shutterstock
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