Non solo Stati Uniti. Il 2012 sarà un anno di campagna elettorale in Russia, Francia, Grecia, Egitto, Iran, Venezuela, Messico e India. Ma anche in Corea del Sud, Lituania, Taiwan, Hong Kong, Senegal, Mali, Kenya e Palestina. E in molti casi si tratta di voti che potrebbero portare a cambiamenti decisivi sulla scacchiera geopolitica. Ma cerchiamo di fare ordine, a partire dagli Usa. Mancano 306 giorni all’election day vero e proprio ma la corsa alle presidenziali è già cominciata con le primarie repubblicane , dove Romney ha battuto Santorum per 8 voti. L’Iowa ha votato per primo: anche se nessun candidato arrivato oltre il terzo posto in Iowa ha mai conquistato la candidatura ufficiale, il caucus (un termine degli indiani d’America, significa l’incontro tra i capi tribù) ha comunque un significato simbolico: si tratta del primo voto ufficiale della campagna presidenziale 2012. Obama ha detto di essere più fiducioso di vincere le elezioni di quanto fosse nel 2008, anche se per la prima volta le primarie saranno influenzate dal movimento conservatore del Tea Party.
C’è poi l’America latina. In Venezuela si vota il 7 ottobre. Hugo Chàvez è alla guida del paese dal 1999 e nonostante la malattia non ha nessuna intenzione di rinunciare alla presidenza fino al 2018. I sondaggi lo danno in testa, ma potrebbe essere comunque la volta buona: a febbraio verrà infatti scelto il candidato da opporre al presidente e l’opposizione si è unita in un unico movimento (Mud) con l’intento di creare un governo di unità nazionale. Gli sfidanti alle primarie sono sei e per distinguersi dai monologhi presidenziali hanno impostato una campagna elettorale sul confronto sulle tematiche del lavoro, dell’educazione, della sanità e della sicurezza. Si tratta di esponenti noti della scena venezuelana. I favoriti sono Pablo Pérez, governatore di Zulia, e Henrique Capriles, governatore dello Stato di Miranda. Terzo Leopoldo López, ex sindaco di una delle municipalità di Caracas. Maria Machado (deputata) punta ai voti del mondo accademico, mentre Pablo Medina è un sindacalista. Ha fatto parlare di sé Diego Arria, ex ambasciatore, che ha presentato una formale denuncia all’Aia nei confronti di Chavez per crimini contro l’umanità.
Il primo luglio sarà la volta del Messico. Il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), sconfitto da Felipe Calderòn e dal suo Partito di azione nazionale (Pan) nel 2000, torna alla carica candidando Enrique Peña Nieto. Per il Prd (Partito della rivoluzione democratica) a sfidare Calderòn sarà Andrés Manuel López Obrador, sconfitto nel 2006 per una manciata di voti. E gli Usa non guardano certo con favore un ribaltamento politico ad opera della sinistra messicana, che in campagna elettorale sta criticando duramente gli accordi di cooperazione economica, soprattutto per quanto riguarda il petrolio. Inoltre verrebbe a mancare un alleato a Città del Messico sui settori della droga e dell’immigrazione clandestina.
Le presidenziali in Russia si svolgeranno invece il 4 marzo. Piuttosto scontati i risultati (Vladimir Putin al Kremlino, Medvedev come primo ministro). L’unico candidato con qualche chance di successo è l’oligarca Mikhail Prokhorov, ma un cambiamento è altamente improbabile. Se sorpresa sarà, verrà dalle piazze: la tensione sociale si è dimostrata già piuttosto alta in seguito alle accuse di brogli elettorali alle parlamentari dello scorso 4 dicembre. I manifestanti hanno chiesto a gran voce una nuova alleanza tra liberali e nazionalisti e auspicano che i 12 anni di potere di Putin volgano al termine. Le questioni interne da risolvere potrebbero complicare anche il quadro internazionale, dato che la Russia è membro permanente del Consiglio delle Nazioni Unite.
Così come lo sono Cina e Francia. Nel primo caso non si parla di vere e proprie elezioni, però il Partito comunista cinese (Pcc) dovrà fare i conti con tre realtà: in primo luogo, il cambiamento dei suoi vertici (il presidente Hu Jintao e il primo ministro Wen Jiabao saranno sostituiti con tutta probabilità da Xi Jinping e Li Keqiang). Il 14 gennaio ci sono le elezioni parlamentari a Taiwan, e l’attuale presidente Ma Ying-jeou (Kuomintang) va verso la conferma del suo secondo mandato. all’opposizione c’è il Dpp (partito democratico progressista), più radicale nella volontà di staccarsi completamente da Pechino. Infine, a Hong Kong il 25 marzo verrà eletto il nuovo amministratore delegato del territorio. L’obiettivo del regime è sostituire Donald Tsang con un profilo più legato al Pcc. In Corea del Sud, invece, si vota per il nuovo parlamento (ad aprile) e per scegliere il successore di Lee Myung bak (dicembre).
Le elezioni presidenziali francesi si svolgeranno in due turni: il 22 aprile e il 6 maggio. A giugno sarà la volta delle elezioni parlamentari. A contendersi il ruolo, Nicolas Sarkozy e François Holland, vincitore delle primarie a sinistra. Marine Le Pen per l’estrema destra e François Bayrou per il centro completano il quadro. Il grande escluso è Strauss Kahn, dopo che l’accusa di avere violentato la cameriera del Sofitel, dove soggiornava a New York, ha estromesso l’ex direttore del Fondo monetario internazionale dai giochi. I sondaggi danno come favorito il socialista Holland, e in caso di vittoria l’asse Merkel-Sarkozy, così come lo conosciamo, potrebbe saltare. L’ex compagno di Sègolène Royal ha dichiarato che il 2012 sarà l’anno del cambiamento e ha passato la campagna elettorale cercando alleati socialisti anche a livello europeo. In Europa si voterà anche per i presidenti di Finlandia (il 22 gennaio) e Slovenia (8 ottobre).
Anche in Grecia lo scenario potrebbe cambiare. Attualmente è guidata da un governo di coalizione, transitorio, presieduto dall’ex vicepresidente della Bce Lucas Papademos. Ad aprile si terranno le elezioni politiche vere e proprie. L’ex primo ministro Papandreou non sarà candidato alla presidenza del suo partito, il socialista Pasok, e tantomeno cercherà di diventare premier. Si tratta di un anno decisivo: è in gioco la permanenza nell’eurozona. Verso la metà di gennaio sono attesi ad Atene i rappresentanti del Fondo monetario internazionale, che dovranno verificare se il governo ha intenzione di applicare davvero i tagli durissimi, condizione indispensabile perché venga sbloccata dall’Europa un’ulteriore tranche di aiuti economici.
In Egitto la terza tornata elettorale per le elezioni parlamentari della Camera Bassa si sono concluse ieri. Il partito del Fratelli Musulmani è in testa, seguito da quello dei salafiti. Le elezioni si inseriscono nel faticoso processo di transizione in atto in un paese destabilizzato, in cui il rapporto tra i militari e le piazze è ormai deteriorato, come hanno dimostrato le manifestazioni dello scorso dicembre al Cairo, represse nel sangue dai soldati. Intanto va avanti il processo all’ex rais Mubarak – ritenuto responsabile di aver incitato alla violenza durante le proteste di piazza Tahrir, nelle quale morirono oltre 800.000 persone -, per il quale è stata richiesta la pena di morte.
In Libia la commissione elettorale ha diffuso una proposta di legge per regolamentare le prime elezioni dell’era post Gheddafi. Dovrebbero tenersi a giugno: l’obiettivo è eleggere i 200 membri del comitato che avranno il compito di redigere una nuova Costituzione. Il testo sarà poi sottoposto a referendum popolare. Il presidente del Consiglio nazionale di transizione, Mustafa Abdel Jalil, ha commentato l’ultimo scontro avvenuto per le strade di Tripoli tra milizie con preoccupazione: «Ci troviamo di fronte a queste violazioni che pongono la Libia in uno scontro militare che non dobbiamo accettare». Il timore è che si possano scatenare nuovi conflitti tra miliziani indipendenti e forze governative. La Libia è invasa dalle armi e basterebbe poco a far scattare la miccia della guerra civile.
Nel continente africano si vota quest’anno anche in Senegal (febbraio) Madagascar (marzo), Mali (aprile), Kenya (agosto), Ghana (dicembre) e – forse – in Zimbabwe: l’attuale dittatore, Robert Mugabe, non ha ancora confermato la notizia.