
I napoletani che fecero grande Bergamo

La mostra allestita nell’Accademia Carrara di Bergamo, che tra i musei non nazionali è, insieme al Poldi Pezzoli di Milano, il più importante della Lombardia, intende mettere a fuoco il capitolo poco noto delle presenze di opere della scuola napoletana nella Bergamasca. Di presenze “foreste”, vale a dire di maestri non indigeni, le regioni d’Italia, non solo al Nord, sono gremite. Il fenomeno della diffusione di quadri non autoctoni è articolato, esteso e soggetto a circostanze storiche e di varia dipendenza politica, alle emigrazioni e ai legami nostalgici di fedeltà con le terre natie, soprattutto nei secoli XVII e XVIII. In particolare, nei territori di Brescia e Bergamo è norma trovare dipinti, anche bellissimi, di scuola veneziana, ma si tratta della conseguenza pressoché immediata dei difformi rapporti intrattenuti dalle due città con la Serenissima. I napoletani a Bergamo costituiscono invece un’imprevedibile rarità, sì che è giusto domandarsi da che tale diffusione dipenda.
La mancanza di maestri di spicco

Nella seconda metà del Seicento, Bergamo non poteva più contare su maestri di spicco, che avevano brillato in città e provincia nel secolo precedente, vedi il sommo Giovanni Battista Moroni. Verso la metà del Seicento, il maggiore protagonista della pittura bergamasca era stato Evaristo Baschenis, un prete dotato di una sensibilità non facilmente allineabile con quelle di un religioso, autore eccellentissimo di nature morte, nelle quali cucine con polli, luganeghe e selvaggina, ma specialmente strumenti musicali, eseguiti con meticolosa cura naturalistica, si dispongono in un rigore di sacrale silenzio, che può essere interpretato in modi diversi, imponendo all’esegeta più consumato e all’osservatore più dotato di inoltrarsi nei lidi della lettura allegorica (che se non viene governata mena chi sa dove).
Ovvio che la produzione di Baschenis fu di destinazione essenzialmente privata, visto che sarebbe curioso trovare sull’altare di una chiesa o nella grande sala di un edificio civile un quadro raffigurante liuti e chitarre, oppure cucine con polli spennati, ma sul piano della destinazione pubblica, personalità di un rilievo pari a Baschenis, dopo il 1650, non ce n’erano.
La chiamata di Mango e Giordano
È noto che Bergamo in passato fu una roccaforte del cattolicesimo, così che, a fronte della rarefazione di validi artisti locali, nel tardo Seicento era ancora viva la premura di restaurare e di arredare, o addirittura di costruire ex novo edifici di culto, fatto che stimolò l’apertura delle porte agli artisti foresti. Un grandissimo storico dell’arte del Settecento, Luigi Lanzi, descrivendo la situazione a Bergamo, afferma che «ridotta Bergamo in penuria di pittori propri, non ha mai risparmiato denaro per ornarsi con le opere dei migliori artisti d’ogni paese». Ciò spiega come negli anni immediatamente successivi al 1650, un pittore napoletano di nome Pietro Mango abbia addobbato di quadri le chiese di Romano di Lombardia, di Gandino e di Bergamo, nella basilica di Santa Maria Maggiore che, a differenza di tante chiese defilate, poteva contare su un cospicuo patrimonio da investire.
È qui che si ammira l’opera di scuola napoletana più importante dell’intero territorio di Bergamo: il Passaggio del mar Rosso di Luca Giordano (Napoli, 1634-1706), una telona di sei metri di base. Il Giordano la dipinse a Napoli nel 1681, indi la inviò a Venezia da dove giunse a Bergamo. La tappa veneziana era pressoché d’obbligo e Luca Giordano aveva lavorato a Venezia poco meno di vent’anni prima, sì da essere già ampiamente conosciuto e stimato.

I quattro martirii in mostra
Non si pretenda di ammirare il Passaggio del mar Rosso in mostra perché non è trasportabile, ma Santa Maria Maggiore non è distante dalla Carrara. Fulcro espositivo della rassegna bergamasca – che si compone di due parti fra loro strettamente connesse, un nucleo di venti dipinti napoletani provenienti dalla fondazione De Vito e un insieme di quadri sparsi nel territorio – sono quattro grandi scene di martirio del medesimo Giordano, pervenute alla chiesa di Pedrengo nei primi decenni del Settecento per acquisto del parroco don Bartolomeo Arici. Dopo il recente restauro, realizzato in occasione della mostra, i quattro martirii splendono cromaticamente, ostentando la forza declamatoria di rappresentazione che qualifica il Giordano come uno dei massimi interpreti del barocco italiano.
Raffigurano Bartolomeo, Andrea, Pietro e Paolo del quale però non viene celebrato l’episodio della morte per decapitazione alle Tre Fontane, bensì la lapidazione di cui l’Apostolo delle Genti era stato vittima a Listra, lapidazione che non valse a fermarlo né a costringerlo a interrompere le sue peregrinazioni.
Questi quadri in origine facevano parte di una collezione veneziana nobiliare che venne dispersa in asta a Bergamo negli anni Trenta del Settecento. Evidentemente il mercato bergamasco era in grado di assorbire anche opere d’alto prezzo.
La mostra si chiude con una altro pittore napoletano, allievo di Luca Giordano, Nicola Malinconico che sostituì il maestro in procinto di partire per la Spagna, a Santa Maria Maggiore, Clusone e Stezzano.
I meriti di questa mostra sono molti, dalla promozione a originale di un bellissimo dipinto già considerato una copia, l’Incoronazione di spine della Carrara, ai restauri, ai ritrovamenti d’archivio che hanno permesso di aggiungere notizie sfiziose sulla storia del collezionismo a Bergamo.
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Napoli a Bergamo. Uno sguardo sul ’600 nella collezione De Vito e in città
Bergamo, Accademia Carrara, sino al 1° settembre.
Mostra a cura di Elena Fumagalli. Catalogo (Skira) con scritti di E. Fumagalli, Nadia Bastogi, Paolo Plebani, Giulia Zaccariotto, Francesco Nezosi, Lorenzo Mascheretti. Presentazione di Martina Bagnoli.
Per informazioni: www.lacarrara.it/mostra/napoli-a-bergamo/
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