La logica vuole che ad ogni diritto corrisponda un preciso dovere. L’esperienza insegna che se enunciare e rivendicare un diritto è semplice, assolvere il dovere corrispondente non lo è affatto. Lo dimostrano i fatti riguardanti l’eutanasia avvenuti in Svizzera, Francia e Belgio negli ultimi due giorni.
EUTANASIA IN CARCERE. In Belgio, nel carcere di Turnhout, è ancora rinchiuso Frank Van Den Bleeken, l’ergastolano di 52 anni finito sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo per aver ottenuto il permesso di farsi uccidere con l’eutanasia. Van Den Bleeken aveva in realtà chiesto di essere curato o ucciso, ma siccome non può essere trasferito all’estero in una clinica in grado di lenire «l’insopportabile sofferenza psicologica» da cui è affetto, i giudici hanno riconosciuto il suo diritto di morire.
CHI LO UCCIDE? Questo succedeva oltre due mesi fa, ma Van Den Bleeken è ancora vivo. Perché? «Non posso dire niente. I medici e la famiglia mi hanno chiesto di non parlare», ha dichiarato a La Libre il suo avvocato Jos Vander Velpen, che ci ha tenuto ad aggiungere: «Il mio cliente chiede sempre l’eutanasia».
E allora come mai il suo diritto non ha ancora portato alla sua morte? Perché l’amministrazione del carcere si è rifiutata di far morire una persona in cella e non si è ancora trovato un medico o un ospedale disposto ad assumersi la responsabilità di uccidere l’uomo.
SONDAGGIO SVIZZERO. Anche in Svizzera il passaggio dalle parole ai fatti non è scontato. Secondo un sondaggio promosso dall’Accademia svizzera di scienze mediche (Assm) e condotto tra 4.800 medici scelti a caso, dei quali solo 1.318 hanno risposto alle domande, il suicidio assistito è una pratica «difendibile». Tre quarti dei medici che hanno risposto, infatti, si sono detti favorevoli al suicidio assistito ma meno della metà sarebbero disposti a compiere il dovere corrispondente e a fornire il farmaco letale ai malati in fin di vita.
«CURARE, NON UCCIDERE». In Francia, François Hollande ha promesso di depositare un progetto di legge sul fine vita entro marzo. Un gruppo di 500 studenti gli ha risposto firmando un documento intitolato: «Curare non significa uccidere». Gli studenti, «i medici di domani», chiedono di «non legalizzare l’eutanasia né il suicidio assistito» e denunciano «la svalutazione del fine vita che tocca oggi tutta la società. In un contesto di “giovanilismo” onnipresente, dove l’integrità fisica e mentale è eretta a culto, le persone vecchie, malate, dipendenti si sentono rapidamente messe da parte. (…) La dignità dell’uomo, valore inalienabile, viene messa in dubbio da alcuni con la motivazione che una vita in una situazione di dipendenza, in condizioni fisiche che non sono quelle desiderate, non varrebbe la pena di essere vissuta».
Gli studenti, desiderando essere meglio formati «su come affrontare il fine vita e il dolore», chiedono che «tutti gli sforzi necessari siano intrapresi per sviluppare le cure palliative» e ribadiscono: «Noi vogliamo essere la mano che cura, non la mano che uccide».
COSCIENZA IRRIDUCIBILE. Non si può certo accusare Belgio, Svizzera e Francia di essere paesi insensibili a eutanasia e suicidio assistito. Anzi. I tre paesi sembrano fare a gara per allargare sempre di più le maglie del cosiddetto diritto di morire. Ma per ogni uomo a cui lo Stato riconosce il diritto di morire ce n’è un altro che ha il dovere di ucciderlo. E non tutti i medici sembrano a proprio agio con questa conseguenza.
Anche i più insospettabili sentono ancora la voce della propria coscienza. È il caso di Wim Distelmans, il re della “buona morte” in Belgio, l’uomo che non si è mai fatto scrupoli a uccidere persone sane e che ha tenuto un seminario sull’eutanasia ad Auschwitz. Anche lui non ha voluto uccidere Frank Van Den Bleeken perché «l’eutanasia non serve a risolvere i fallimenti della società. Non vorremo mica compiere l’eutanasia perché non siamo in grado di offrire un’alternativa?».