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Lo scienziato dissidente Green colpisce ancora: illuso chi pensa di sconfiggere l’Aids con condom e farmaci, ci vuole un’educazione

L'ex direttore del Centro anti-Aids di Harvard sfata (di nuovo) gli «assunti» del New York Times. «Non sono diventato religioso, porto dati scientifici»

Benedetta Frigerio
09/09/2014 - 3:00
Società
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Continuare a inondare l’Africa di preservativi e farmaci antiretrovirali? Non è scientifico sostenere che sia questo il modo migliore di combattere contro l’Aids nel continente. Peggio: è un’illusione che rischia paradossalmente di peggiorare le cose, favorendo la diffusione del contagio da Hiv. È la tesi del ricercatore americano Edward Green (foto in basso a destra), autorità internazionale della materia, ostracizzato dal “suo” mondo liberal proprio per aver assunto posizioni anticonformiste riguardo alle campagne anti-Aids.

CONTROCORRENTE. Messo alla porta dal Centro di ricerca per la prevenzione dell’Aids di Harvard, da lui diretto, dopo essersi ricreduto circa l’efficacia dei programmi di sostegno al Terzo Mondo incentrati ideologicamente sull’uso del condom, Green aveva fatto scalpore in tutto il mondo nel 2009 quando fornì i dati che provavano la verità delle parole pronunciate da papa Benedetto XVI proprio in Africa: «Il problema dell’Aids non si risol­ve con la distribuzione dei preservativi, che anzi peggiorano il problema». Una tesi che il luminare progressista sostenne di nuovo con forza nel 2012, sempre con abbondante contributo di dati scientifici, nel suo libro Broken Promises che denuncia il “tradimento” dei paesi in via di sviluppo da parte dell'”establishment dell’Aids” (qui la sua intervista a Tempi sulle tesi contenute nel volume).

«NON FATE CONFUSIONE». E adesso, con un articolo pubblicato dal National Review il 29 agosto, Green torna all’attacco insieme al collega Allison Ruark per rispondere all’intervento di Donald McNeil apparso sul New York Times il 25 agosto e intitolato “I progressi contro l’Aids in South Africa sono in pericolo”. Secondo McNeil la diminuzione degli investimenti del governo americano mirati alla diffusione dei farmaci antiretrovirali starebbe invertendo il trend positivo registrato in Sudafrica dalla lotta all’Aids. Per Green e Rualk, invece, questo non accadrà, semplicemente perché nell’Africa meridionale «non c’è mai stato alcun progresso» nella lotta contro la diffusione del virus. I dati discussi alla Conferenza del Sud Africa del 2013 hanno rilevato piuttosto come si sia ridotto l’indice di mortalità per Aids, non la sua incidenza. Ma «il successo nei trattamenti medicinali in Sudafrica e quindi la decrescita del tasso di mortalità non devono essere confusi con un successo nella prevenzione», un equivoco purtroppo diffuso «non solo in Sudafrica».

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edward greenUGANDA, SUCCESSO E RETROMARCIA. Innanzitutto il calo della prevalenza dell’Hiv in Africa dopo il picco alla fine degli anni Novanta, ricordano Green e Rualk, è un fenomeno che è si è manifestato «prima che gli antiretrovirali diventassero ampiamente accessibili». E «l’altro assunto» del New York Times che bisogna sfatare perché non supportato dai dati, continuano i due studiosi, è quello secondo il quale «i preservativi sono la causa o sono legati al declino del tasso di infezione da Hiv in Sudafrica». In proposito i ricercatori ricordano «il primo e maggior caso di successo contro l’Aids» di tutta l’Africa: l’Uganda, dove grazie all’approccio educativo basato su astinenza e fedeltà «i tassi di infezione si abbassarono ancor prima che i profilattici fossero disponibili fuori dalla capitale Kampala». E se invece oggi «l’Uganda non sta più facendo tanto bene», notano Green e Rualk «probabilmente è perché i benefattori occidentali hanno fatto pressione sui suoi governanti perché smettessero di dissuadere i comportamenti a rischio – principalmente i rapporti con più partner — e si affidassero invece ai farmaci, ai test e ai condom».

«NON SONO DIVENTATO RELIGIOSO». Se l’indice di diffusione del virus in Africa si è ridotto è grazie alla “partner education”, ovvero alla riduzione dei partner sessuali, insistono Green e Rualk. E appare anche «probabile che l’insegnamento e l’esortazione venuti dalla base del paese, segnatamente dalle chiese e dalle moschee, abbia rinforzato la reazione naturale che ha portato le persone a fare più attenzione al comportamento sessuale». Tesi un po’ forti per un intellettuale progressista? «Dicono che sono diventato religioso – ha detto poi Green in una intervista a Lifesitenews.com – ma siamo noi quelli che portano dati scientifici. Loro sono nella morsa dell’ideologia».

LA GUARDIA ABBASSATA. Se infatti come sostiene il New York Times in Sudafrica i progressi della lotta contro l’Aids sono a rischio, la vera ragione la mostrano meglio le rilevazioni sui comportamentali nazionali, da cui emerge che «nell’ultimo decennio è aumentata la percentuale di sudafricani che riportano partner sessuali multipli (due o più nell’ultimo anno)». A quanto pare, quindi, «paradossalmente l’accesso maggiore ai trattamenti medici contro l’Aids degli ultimi anni potrebbe aver portato a una minor cautela nei comportamenti (…), facendo pensare alle persone che l’Aids non coincide più con una sentenza di morte».
Quando Green era membro del Consiglio consultivo del presidente per l’Hiv dal 2003 al 2007 – racconta lui stesso nell’articolo firmato con il collega – tutti i 27 membri concordarono con lui che la strategia della diffusione del condom e dei trattamenti medici «era stata un sogno irrealizzabile». Tanto che «persino l’allora amministratore delegato della Pfizer, Hank McKinnell, scrisse un libro insieme al resto del Consiglio consultivo che parlava della necessità di promuovere cambiamenti nel comportamento sessuale, di incoraggiare la circoncisione maschile (almeno in Africa) e prendere altre misure necessarie a una sana prevenzione dell’Aids». Purtroppo però i pochi fondi per i programmi educativi stanziati durante il governo Bush sono «scomparsi sotto l’amministrazione Obama».

@frigeriobenedet

Tags: africaaidsastinenzaBenedetto XVIcondomedward greenfedeltàhivlotta aidsnational reviewnew york timespreservativisudafricauganda
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