L’Economist ha incoronato l’Italia paese dell’anno ma, spiace dirlo, invece che stappare champagne, l’unica bevanda che si tracanna nella redazione del settimanale britannico, dovremmo toccare ferro (o altro, ma occhio al #MeToo).
Sia lode a Draghi nell’alto dei cieli
L’Italia “è cambiata”, scrive la rivista delle élite per eccellenza, non grazie alle imprese italiane, non grazie ai rappresentanti scelti dagli italiani e tanto meno grazie alle qualità degli italiani. Tutte queste cose continuano a fare ribrezzo al giornale della city. Il merito ovviamente è di una persona sola: è Mario Draghi, “un premier competente e rispettato a livello internazionale”, ad aver risollevato le sorti del paese.
Le qualità e i meriti di Draghi sono indiscutibili, ma la sensazione che più che un premio, l’Economist (il cui primo azionista è la Exor della famiglia Agnelli) voglia indirizzare le sorti del paese è forte. Infatti, si legge ancora nelle motivazioni, se Draghi andasse al Quirinale “questa insolita esplosione di governance potrebbe subire un’inversione” perché al suo posto verrebbe eletto un premier “meno competente”. Il ragionamento assomiglia molto a una “insolita esplosione di spocchia tecnocratica” e non è molto rispettoso della democrazia, ma che l’Economist abbia sempre ritenuto gli italiani “unfit to lead Italy” non è una novità.
L’Italia supera Samoa, Zambia e Moldova
Anche se esaltarsi per l’alloro tecnocratico è un po’ provinciale, fa sempre piacere essere lodati. Va detto però che i candidati arrivati nella rosa dei cinque finalisti non sembrano proprio irresistibili, con tutto il rispetto per Samoa, Moldova, Zambia e Lituania. A caval donato non si guarda in bocca, dice giustamente l’adagio, però dando un’occhiata alla fine che hanno fatto gli altri cavalli un po’ di ansia è giustificata.
Nel 2014 è stata premiata la Tunisia per essere riuscita a eleggere un governo democratico dopo decenni di dittatura. Bene, al di là della disoccupazione galoppante (per mantenere un tono ippico) e del fatto che i giovani scendono in piazza pronunciando frasi del tipo “si stava meglio sotto il regime di Ben Ali”, il presidente della Tunisia ha da qualche mese assunto i pieni poteri ed esautorato il Parlamento e il governo.
L’Economist porta un po’ sfiga
L’anno dopo, nel 2015, è stato alzato sul piedistallo il Myanmar, dove la dittatura militare ha appena incarcerato la leader democratica Aung San Suu Kyi, esautorato il Parlamento, ucciso qualche centinaio di manifestanti e arrestato qualche altro migliaio di persone.
Non vogliamo insinuare che l’Economist non capisca niente di politica o non abbia visione, concedeteci però almeno di avanzare il dubbio che porti un po’ sfiga. L’Armenia nel 2018 era il miglior paese dell’anno e appena due anni dopo ha subito l’invasione dell’Azerbaigian, perso centinaia di soldati in guerra e una buona fetta del Nagorno-Karabakh e del suo stesso territorio. Non sappiamo come siano messi Uzbekistan (vincitore 2019) e Malawi (2020) ma a occhio e croce ci sono posti dove si sta meglio.
In conclusione, ci sentiamo di ringraziare l’Economist dal profondo del cuore per l’onore che ci ha accordato conferendoci il prestigioso riconoscimento. La prossima volta, però, premiate i crucchi.
Foto Ansa