«Con ispirito e ragione», scrisse nel 1600 Fra Antonio di Guevara, Vescovo di Mondognedo, ad un signore suo amico «guardatevi da quei giudici giovani, pazzi, arditi, temerari e sanguinolenti, i quali, perché arrivi nella corte la loro fama, e che di là venga affidato loro qualche governo, fanno mille crudeltà nelle vostre terre, di tal maniera che vi sarà più da rimediare per gli spropositi che fanno, che per le colpe che i vassalli commettono» (Bettino Craxi).
Antonio Di Pietro è convinto di poter diventare il sindaco di Milano. Lo ha detto in un’intervista al Corriere della Sera. «Milano non è cambiata dagli anni in cui ero in Procura. E quindi mi candido a fare il sindaco». Povero Tonino. Ormai ai margini della scena politica, cerca di tornare a vestire i panni che gli hanno consentito di calcarla. La corruzione, spiega, è tale quale ad allora, «l’unica differenza è che oggi (le associazioni di imprese, ndr) sono più sofisticate e hanno ingegnerizzato il sistema».
E lo stesso Corriere della Sera, che oggi lo intervista beffardo relegandolo nello scantinato di pagina 13, fu lo stesso giornale che in quegli stessi anni stampò nero su bianco giudizi di questo tipo: «Errabondo come Ulisse, infaticabile come Gulliver, riverito come Marco Polo, sentimentale come Laurence Sterne. C’è un viaggiatore in più nella leggenda, Antonio Di Pietro. I suoi spostamenti in giro per il mondo, da un paio di anni a questa parte, sono seguiti nei cinque continenti come le missioni pastorali del Papa». E ancora: «L’uomo che ha disfatto l’Italia del basso Impero ora è il più fervido, patriottico apostolo del suo riscatto. Mentre a casa incide ancora, senza anestesie, le deformità del sistema, all’estero Di Pietro ricostruisce come un chirurgo plastico il volto armonioso e rassicurante della penisola. Dall’Australia ad Hong Kong, via Stoccarda, da New York al Lussemburgo via Madrid, il giudice itinerante traccia la rotta di una nuova reputazione italiana, diffonde ottimismo, semina fiducia, calamita consensi su quel gigantesco cantiere a forma di stivale che si allunga nel Mediterraneo».
Sono citazioni ricordate da Bettino Craxi nel libro, uscito il mese scorso (Io parlo, e continuerò a parlare, Mondadori), che raccoglie suoi pensieri e appunti, alcuni inediti, stesi tra il 1994 e la sua morte, il 19 gennaio 2000. Craxi in esilio ad Hammamet; Di Pietro a far politica con la sinistra, a fondare partiti, a sedere su poltrone ministeriali. Ma per tutto quel periodo gli scritti di Craxi circolarono in Italia in forma quasi semiclandestina su pochi fogli d’ispirazione socialista, per lo più finendo, come egli stesso scrisse, «inesorabilmente nei cestini della carta delle redazioni dei giornali».
Ma rileggere oggi quelle chiose a margine di tanti avvenimenti della storia italiana (ce ne è sul caso Moro, Ustica, processo Sme, Tangentopoli) e sui suoi protagonisti (Andreotti, Napolitano, Prodi, D’Alema, Berlusconi, Fini, Amato, Cossiga, il pool di Mani Pulite) sorprende il lettore per la capacità di analisi e di preveggenza dell’ex leader del Garofano. Soprattutto perché aveva compreso che la sua vicenda personale non era solo una dolorosa vicenda intima, ma la premonizione di ciò che sarebbe accaduto. Prima a lui e poi, come per contagio, a tutti gli altri, divorati essi stessi dal ricatto moralistico su cui è nata la Seconda Repubblica che, eliminati i partiti, ha lasciato che la “cosa pubblica” non finisse in “mani pulite”, ma in quelle di clan senza più ideali né bandiere, perennemente sotto scacco di nuclei della magistratura e dell’informazione.