
Covid-19 e l’occasione (persa) di disarmare una buona volta la burocrazia

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
L’impatto di Covid-19 sulla realtà istituzionale italiana non ha fatto emergere problemi nuovi: ha drammatizzato quelli che già esistevano. Fra questi, il peso della burocrazia, che ha inciso sulla gestione della crisi e sui primi passi della ripartenza.
Passiamo in rassegna le poche opere significative realizzate in tempi accettabili negli ultimi anni: sono state ultimate (si pensi per tutte al ponte Morandi, ricostruito a Genova) perché si è nominato un commissario (capace e presente: chi meglio del sindaco del capoluogo ligure?) e si è derogato a una ordinarietà che avrebbe solo fatto perdere tempo e risorse, compromettendone il completamento. Si confronti, al netto delle polemiche, la gestione del post sisma de L’Aquila del 2009 con quella dei Comuni umbro-marchigiani del 2016, ancora pressoché bloccata.
Il termine “burocrazia” ha da tempo assunto una accezione non neutra, come pure l’etimologia dovrebbe far intendere – bureau (ufficio) e kratos (potere), cioè la conduzione di un ufficio pubblico –, per assumere quella spregiativa di vincoli, lentezze, incapacità di adattamento, quindi inefficienza. Riforme approvate negli anni Novanta con l’intenzione di snellire e di semplificare hanno ottenuto risultati opposti, deresponsabilizzando figure significative negli apparati amministrativi, e consolidando il principio della “carta a posto”: che andrebbe messo in cornice e appeso dietro la poltrona del “burocrate”, a fianco alla fotografia del capo dello Stato. Se i passaggi formali sono tutti rispettati all’estremo, se il minimo dubbio che un via libera si possa ritorcere contro chi lo ha rilasciato, anche solo con una pur infondata denuncia, è meglio che io lasci la “carta” sul tavolo e attenda tempi migliori.
Ricordo, negli anni trascorsi al ministero dell’Interno, un furibondo litigio con un “burocrate” di rango che, al mio ennesimo sollecito su una questione sulla quale il governo di cui facevo parte si era impegnato, e che tuttavia restava ferma per causa sua, rispose candidamente che se lui lasciava sulla scrivania i fascicoli che gli pervenivano per un tempo medio di sei mesi, alla scadenza del semestre una buona metà delle questioni da essi trattate aveva perduto peso e interesse, e si poteva archiviare. Negli anni successivi si è stratificato un meccanismo di verifiche e controlli – spesso solo nominali – che alla “carta a posto” ha affiancato il corollario “perché mi devo assumere questa responsabilità?”
Incide la qualità della formazione, nell’ultimo ventennio mediamente scaduta, senza far torto alle eccezioni: perché d’altronde meravigliarsi del livello, per esempio, dei prefetti o dei funzionari ministeriali di oggi rispetto a quello di vent’anni fa, se lo si compara con quello dei magistrati o dei docenti universitari, pur esso tutt’altro che eccellente?
Tutto questo è antecedente Covid-19. L’emergenza in teoria poteva essere l’occasione per spingere il governo a uno scatto di reni: l’uso massiccio di strumenti normativi straordinari avrebbe potuto far dare una sforbiciata a procedure pesanti, con un patriottico richiamo a conseguire risultati di sostanza, in un momento così grave per l’intera nazione. La strada intrapresa è stata diversa: invece di far leva sulle strutture esistenti, anzitutto nei ministeri, l’esecutivo ha fatto ricorso massiccio agli “esperti”.
Il rifiuto di scegliere
Ne sono stati censiti oltre 450 distribuiti in non meno di 15 diverse task force. Pur essendovi stata, soprattutto all’inizio della pandemia, la drammatica necessità di persone che capissero e che fossero in grado di far capire un virus sconosciuto, l’opzione strutturale del presidente del Consiglio, e dell’esecutivo da lui guidato, è stata duplice: da un lato, ha fatto apparire superato e inutile il sistema dei ministeri e dei loro apparati, poiché li ha del tutto esautorati, e quindi ulteriormente deresponsabilizzati. Dall’altro non si è limitato a chiedere ai “tecnici” quadri informativi alla cui stregua assumere le decisioni: ha spesso fatto decidere a loro, sia quanto alla gestione della fase 1, sia quanto alla ripresa delle attività, la cosiddetta fase 2.
Si è perduta una occasione storica per ridare fiducia all’apparato dello Stato, al contrario deprimendolo, e si è mutuato dalla cattiva amministrazione il virus non già del Covid-19, bensì del rifiuto dell’esercizio della scelta. Che tuttavia è il proprio della politica.
Foto Ansa
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