Italia come Genova. O si rifà il ponte o moriremo sepolti da leggine e sospetti

Di Emanuele Boffi
16 Maggio 2020
Dal pantano non si esce con “più sospetto” ma con “più fiducia”: nelle imprese, nei cittadini, persino nei magistrati cui è chiesto di intervenire se necessario, non se si finisce su Repubblica o sul Fatto
Il nuovo ponte di Genova, sorto sulle rovine del Morandi, illuminato con il tricolore

Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Tutti abbiamo applaudito quando è stata data notizia che è ormai pronto il nuovo ponte di Genova. Sopra il torrente Polcevera è riapparso il viadotto che crollò nell’agosto di due anni fa, portando via la vita a 43 persone. Con la supervisione del sindaco-commissario Marco Bucci e l’ingegner Roberto Carpaneto, le maestranze hanno lavorato di gran lena in condizioni complicate, «demolendo e ricostruendo un ponte in uno spazio limitato, in mezzo a una città dove ci sono quattro assi viari urbani e l’asse ferroviario principale per il porto di Genova, oltre a problematiche ambientali come polveri e rumori». Come se non bastasse, ci si è messo pure il virus. Eppure, grande orgoglio italiano, il ponte è stato ricostruito, eccolo lì, a sfregio del nostro consueto disfattismo e tafazzismo. Un “miracolo”, ha detto più d’uno.

Il “miracolo” ha una spiegazione molto poco soprannaturale: se si è potuto fare in fretta e senza intoppi è perché è stata presa una decisione politica chiara. Al commissario sono stati conferiti poteri eccezionali e fondi che ha potuto usare senza troppi vincoli. Ha potuto operare in deroga al codice degli appalti affidando autorizzazioni senza sprofondare nelle sabbie mobili di leggi, leggine, commi e sottocommi. E così – meraviglia delle meraviglie – abbiamo scoperto che se c’è una limpida volontà politica, se c’è qualcuno che si prende la responsabilità di fare, se la burocrazia non esagera con le richieste di validazione, se i soldi li usiamo senza dover per forza compilare un grattacielo di certificazioni, se tutti collaborano, non solo riusciamo a “fare le cose”, ma le facciamo bene e in tempo. 

Ma, appunto, troppi “se”. L’Italia, oggi, con l’emergenza coronavirus, è come Genova. Nessuno, figuratevi Tempi, chiede di applicare il “modello cinese” (uno Stato centrale che tutto decide e impone), ma è proprio così impossibile trovare una via di mezzo tra Pechino e Londra? Tra Pyongyang e New York? Ovvio che noi preferiremmo Londra e New York, ma diciamo che ci acconteteremmo di non vedere finire tutto nel buco nero dei ricorsi al Tar, dei sequestri preventivi, della spazzacorrotti. 

Hai voglia a parlare di “effetto fenice” se poi chi governa non ci mette i soldi, annunciando in tv il 6 aprile la faraonica cifra di 400 miliardi di euro quando, a inizio maggio, se ne è visto meno di 1; se poi la Cgil manda in giro volantini in cui scrive a caratteri maiuscoli che il covid-19 può essere inteso come «infortunio sul lavoro»; se rimangono inalterati i labirintici percorsi burocratici che fanno ammattire il più volenteroso degli imprenditori. Altro che “effetto fenice”, questo è l’effetto pillola Ru486: la fenice la impallino prima di farla nascere. 

Poi c’è il vero tema di fondo di questo paese e che un virus come il Corona, che ci costringe alla distanza, enfatizza ancora più: il sospetto. Da trent’anni viviamo in un regime che lo ha eretto a preambolo di ogni regola. Soprattutto dalle parti della sinistra fino ai loro incazzosi epigoni pentastellati non c’è norma che non risponda all’idea che l’altro – sia egli imprenditore o comune cittadino – vada controllato, limitato, seppellito sotto carte e leggi pur di non farlo agire. “Se non agisci non truffi” è la logica davighiana: l’altro è un malvivente fino a prova contraria. Parafrasando Mao, questi colpiscono un disonesto per far morire di fame cento onesti.

Nemmeno gli “eroi” medici sono stati risparmiati; avevano chiesto al parlamento di stoppare «l’atavico tema della responsabilità professionale che vede il medico italiano colpevole di tutto fino a dimostrazione contraria» e hanno risposto loro picche. E così il dottore che s’è dannato l’anima per 12 o 13 ore al giorno per salvare vite, ora dovrà preoccuparsi di non beccarsi qualche causa. 

Da questo pantano non se ne esce con “più sospetto”, ma con “più fiducia”. Fiducia nelle imprese, fiducia nei cittadini, fiducia nella burocrazia, fiducia persino nei magistrati cui è chiesto di intervenire là dove è necessario, non là dove è garantita la prima pagina di Repubblica o del Fatto. Non è impossibile, a Genova ce l’abbiamo fatta. Avete visto che bel ponte?

Foto Ansa

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