
Cosa resterà dell’Afghanistan

Sul futuro che aspetta l’Afghanistan dopo il ritiro degli ultimi soldati americani e della Nato, fissato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden per il prossimo 11 settembre, è stato scritto un profluvio di rapporti riservati e analisi strategiche da unità informative delle agenzie di intelligence, centri studi militari, enti di ricerca del Congresso americano, ma la sintesi più efficace è forse quella di un commento a firma di Lindsey Graham, senatore repubblicano della Carolina del Sud, e di John Jack Keane, generale in pensione e direttore dell’Institute for the Study of War, apparso sul Wall Street Journal: «Nei prossimi mesi e nei prossimi anni il governo afghano che siede a Kabul perderà lentamente ma certamente il suo potere nell’intero paese. Gli iraniani cominceranno a dominare l’Afghanistan occidentale, e i talebani cominceranno a governare la parte meridionale del paese. La vecchia Alleanza del Nord si riorganizzerà. L’Afghanistan orientale si ritroverà sotto il controllo del network Haqqani, un’entità criminale designata come organizzazione terroristica straniera dal dipartimento di Stato. Le cellule dell’Isis e gli elementi di al Qaeda sparsi in giro per l’Afghanistan sfrutteranno il caos». A tutto questo va aggiunto che le donne afghane perderanno quasi tutte le posizioni che hanno faticosamente conquistato negli ultimi vent’anni, a partire dalla possibilità di frequentare scuole e università (il 40 per cento di tutta la popolazione scolastica e universitaria afghana è costituita da ragazze, mentre ai tempi dell’emirato l’istruzione femminile finiva con la terza elementare) e qualche milione di profughi si riverserà nei paesi vicini per poi partire, in buona parte, alla volta dell’Europa.
Lo strapotere dei ribelli
Non solo deputati repubblicani del Sud e pluridecorati generali in pensione supplicano il presidente Biden di lasciare ancora una certa quantità di truppe in Afghanistan: la pensano allo stesso modo il comandante delle forze americane in Medio Oriente generale Frank McKenzie, il comandante delle forze della Nato in Afghanistan generale Austin Scott Miller, il capo di Stato maggiore dell’esercito generale Mark Milley e persino lo stesso ministro della Difesa, il generale a quattro stellette in pensione Lloyd Austin. Tutti costoro si ritrovano attorno allo stesso concetto: se si vuole che i talebani si impegnino seriamente nel negoziato di pace col governo afghano, occorre che una forza di dissuasione resti sul terreno, altrimenti i ribelli traccheggeranno fino al ritiro definitivo delle truppe, e poi lanceranno un’offensiva su larga scala per conquistare le città, compresa la capitale Kabul.
Sulla carta i talebani sono inferiori: 40 mila combattenti privi di aviazione e armi pesanti contro 340 mila militari e poliziotti governativi; nella realtà, le truppe di élite afghane in grado di condurre operazioni di controguerriglia sono solo 20-30 mila; tutti gli altri effettivi sono costituiti da personale male armato e male pagato (nonostante i 4 miliardi all’anno di aiuti che gli americani riversano sulle forze armate afghane) sparso in centinaia di postazioni e check-point dove fa da bersaglio alle incursioni mirate della guerriglia.
Nel luglio dello scorso anno il presidente Ashraf Ghani comunicò che fra il 29 febbraio – il giorno in cui l’amministrazione Trump aveva firmato a Doha l’accordo di pace coi talebani, che si impegnavano a non colpire più le forze americane e quelle dei paesi Nato fino al loro ritiro, previsto per il 1° maggio 2021 – e il 21 luglio 2020 i ribelli avevano ucciso 3.560 uomini delle forze di sicurezza e ne avevano feriti altri 6.780. Dopo di allora gli americani hanno secretato tutti i rapporti sulle perdite delle forze afghane in battaglia.
Gli altri obiettivi strategici
A riprova della fondatezza delle loro analisi, i contrari al ritiro portano il fatto che i talebani hanno preso a pretesto lo spostamento della data del ritiro dal 1° maggio all’11 settembre decisa da Biden subentrato a Donald Trump per boicottare la nuova fase del negoziato di pace, che doveva cominciare il 24 aprile con un summit a Istanbul.
Biden non è affatto impressionato da questi discorsi, e verosimilmente rispetterà l’impegno che si è assunto. E non solo per il fatto che i tre quarti degli americani, secondo i sondaggi, sono favorevoli al ritorno a casa di tutte le truppe. Già nel 2009, quando era vicepresidente nella prima amministrazione Obama, si era dichiarato contrario al “surge” che portò le truppe americane sul terreno da 30 mila a 100 mila, e nel 2011 aveva manifestato il punto di vista che «di per sé i talebani non sono nostri nemici».
Biden ritiene che restare in Afghanistan come forma di pressione sui talebani per spingerli a un negoziato sincero implica il proseguimento della guerra, con altre vittime americane e altre risorse da riversare, che non potrebbero essere dedicate ad altri obiettivi strategici che gli stanno a cuore, e che il Washington Post recentemente elencava così: «L’aggressività cinese e russa, crescita della minaccia terroristica in altre regioni del mondo, cambiamenti climatici, sanità globale e non proliferazione atomica».
Il presidente pensa che gli Stati Uniti possono continuare a condizionare l’evoluzione dell’Afghanistan dall’esterno: se i talebani tornano da soli al potere e privano le donne di tutti i diritti sin qui conquistati, gli Stati Uniti e tutta la comunità internazionale interromperanno gli aiuti economici al paese, che rappresentano attualmente l’80 per cento del suo bilancio; se lasciano riorganizzare ad al Qaeda campi di addestramento come negli anni Novanta o tollerano l’Isis, gli americani possono condurre attacchi mirati con droni e cacciabombardieri collocati sulle portaerei che stazionano nel vicino Mare Arabico. Per questo Biden è convinto che i talebani preferiranno concludere un accordo politico con le forze costituzionali.
Il grande gioco può ricominciare
La pensano come lui alcuni analisti internazionali. Antonio Giustozzi dell’Ispi di Milano, uno dei più apprezzati analisti delle posizioni dei talebani a livello internazionale, ha espresso al New York Times il suo scetticismo sulla prospettiva che i talebani tornino al potere per imporre un regime islamista rigidissimo all’Afghanistan: «Se avranno la possibilità di salire al potere sulla base di un accordo politico, fra la restaurazione dell’emirato e un sistema democratico ci sono altre opzioni possibili. Il loro obiettivo è diventare la forza dominante». Si spiegherebbe così la loro richiesta, avanzata nei colloqui intra-afghani di Doha, di istituire un Consiglio della giurisprudenza islamica con poteri simili a quelli del Consiglio dei guardiani della Costituzione nell’Iran sciita.
Anche secondo Ashley Jackson, ricercatrice dell’Overseas Development Institute specializzata nello studio dei talebani, autrice del libro Negotiating Survival – Civilian-Insurgent Relations in Afghanistan, i massimi leader sono favorevoli a una soluzione diplomatica: «Vogliono veramente concludere accordi con altri attori politici della scena afghana per potere salire al potere in maniera legittima, in modo che il loro Afghanistan non torni ad essere lo Stato paria che era negli anni Novanta».
Parole e atti dei talebani contraddicono vistosamente la relativa moderazione che a loro attribuiscono Giustozzi e la Jackson: nei distretti sotto il loro controllo (pari alla metà del territorio afghano) continuano ad essere comminate pene corporali, come le frustate alle donne che si spostano senza essere accompagnate dal tutore maschio o il cui burqa sia privo di reticella all’altezza degli occhi; nelle regioni sotto l’influenza dei talebani non ci sono studentesse oltre le scuole elementari oppure quelle che ci sono non possono studiare inglese e scienze sociali, sostituite da ore di religione. In un discorso tenuto verso la fine dello scorso anno il mullah Abdul Ghani Baradar, per lungo tempo vice del mullah Omar, ha affermato: «L’unica cosa che è stata fatta durante l’occupazione occidentale dell’Afghanistan è stata, nel nome dei diritti della donna, la promozione dell’immoralità e di una cultura anti-islamica».
Tutte cose che la nuova amministrazione statunitense sa benissimo, ma che non le faranno cambiare idea: iraniani, pakistani, russi, cinesi e indiani vogliono rinnovare in Afghanistan il “great game” dell’epoca imperialista dopo che l’ultimo marine avrà lasciato Kabul? Tanto meglio per Washington: sprecheranno forze ed energie che non potranno usare in altri teatri dell’immensa Asia dove gli Stati Uniti hanno interessi strategici maggiori di quelli che a loro restavano nella “Tomba degli imperi”.
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