Colli Lanzi: «Basta ricatti: l’inamovibilità del posto fisso non è un diritto»
«Abbiamo un grave problema di produttività e un enorme problema di flessibilità del lavoro, che non possiamo scaricare tutto in entrata sui giovani, contribuendo all’ingiusto dualismo tra chi è “dentro” e chi è “fuori” dal mondo del lavoro. Fa bene il governo a dire di volersi confrontare con i sindacati ma non si può cedere al ricatto del “diritto” all’inamovibilità del posto fisso». Riassume così la sua posizione intorno all’art.18 Stefano Colli Lanzi, amministratore delegato di Gi Group, una delle principali reti di agenzie di lavoro interinale sul territorio nazionale.
Quindi non bisogna dare troppo retta ai sindacati?
«Non ho detto questo. Sono d’accordo con il presidente del Consiglio Monti e con il ministro Fornero, quando invitano al confronto tra le parti sociali, senza, però, preclusioni di alcun tipo. Deve essere possibile per le aziende rescindere il contratto di lavoro anche per motivi organizzativi, solo se si hanno ragioni reali e a condizione che l’azienda venga responsabilizzata nel risolvere la necessità del lavoratore esodato di trovare un nuovo posto di lavoro; cosa che si può ottenere utilizzando servizi professionali efficaci come l’outplacement e vincolando le persone coinvolte a frequentare percorsi di formazione in grado di garantire una maggior impiegabilità ad ogni età».
Lei però, nei mesi scorsi, ha criticato il famoso art. 8 del ministro Sacconi, che includeva la riforma dell’art.18.
«Ho detto che l’art. 8 della manovra finanziaria di agosto ha sancito l’importanza della contrattazione aziendale quale efficace strumento per determinare condizioni vincenti nel rapporto tra singole imprese e lavoratori. La positività di tale determinazione rischiava, però, di essere inficiata dall’eccessivo raggio di azione concesso alle parti. Tale esagerazione, forse dovuta ad una mancanza di coraggio nell’affrontare fino in fondo una riforma del sistema, crea, infatti, le condizioni perché la contrattazione aziendale possa rimuovere qualsiasi vincolo di legge. L’inadeguatezza di questo approccio sembra evidente a chi avverte la necessità di avere un sistema di leggi certamente fondato sulla libertà, ma capace di dare certezze a chi opera, almeno sulle questioni fondamentali: un sistema che preveda la possibilità di derogare ai principi di fondo rischia di incrementare solo incertezza e precarietà, che allontanerebbero ancora gli investimenti esteri».
In che modo una riforma dell’art.18 potrebbe evitare questo rischio?
«Non si tratta tanto di disquisire sull’art.18 ma di eliminare l’inamovibilità del lavoratore dipendente, anche in condizioni nelle quali la situazione non sia più sostenibile, sottolineando la responsabilità dell’azienda nel ricollocare la risorsa. Penso che il ministro Fornero non si voglia limitare ad agire sull’art.18 ma voglia sviluppare una riforma ampia e capace di puntare allo sviluppo del sistema. Chi mette tutta l’attenzione sul tema articolo 18, lo fa per creare l’ennesima battaglia ideologica e bloccare tutto, sollecitando vecchie ideologie e facendo pensare a vecchi metodi, dei quali non sentiamo nostalgia».
Però la paura del “nuovo” c’è a molti livelli.
«Bisogna ricordare che, da quanto si legge, la riforma riguarderà solo i nuovi rapporti di lavoro, e che l’art.18 rimarrà in tutti i rapporti di lavoro dipendente in materia di licenziamenti discriminatori, come dice il professor Ichino. La norma paradossalmente raddoppierebbe il campo di applicazione dell’articolo18: oggi, nell’area del lavoro non adeguatamente disciplinato (precario), non si applica. La formula da applicare potrebbe essere: tutti a tempo indeterminato, a tutti le protezioni essenziali, ma nessuno inamovibile e aziende responsabilizzate a ricollocare. Come dice Ichino, la flessibilità in questa ipotesi di “diritto del lavoro unico” rimarrebbe: si potrà assumere, ad esempio un giovane come apprendista, stipulare un contratto di somministrazione a tempo determinato nei casi classici, come un picco di lavoro o una sostituzione temporanea».
Il fuoco di sbarramento dei sindacati, sembra, ad oggi, invalicabile. Come giudica il loro ruolo, in special modo, quello della Cisl, tra i sindacati più “dialoganti”?
«Mi sembra che alcuni stiano facendo barricate per mantenere un immobilismo ormai insostenibile e che la stessa Unione Europea da tempo ci chiede di sbloccare. Si tratta di guardare la realtà dei fatti: il sistema in questo modo non regge, l’Italia rischia il collasso se non si mette mano a misure per lo sviluppo, che passano attraverso una maggiore flessibilità ed efficacia dei rapporti di lavoro. La Cisl non contribuisce al beneficio dei lavoratori dando della “maestrina” al Ministro, né agitando lo spettro della coesione sociale a rischio. Piuttosto, la Cisl, che giustamente chiede di poter interloquire con il Governo, dovrebbe proseguire il dialogo con le imprese nell’interesse dei lavoratori e cogliere le opportunità di riforma che questo drammatico momento storico ci sta offrendo: non insistendo sull’inamovibilità del posto di lavoro improduttivo, favorendo un maggior numero di posti produttivi perché qualificati, sia favorendo maggior “flexicurity”, cioè la possibilità per tutti di accedere a percorsi professionali in una prospettiva di continuità anche dove il rapporto lavorativo fosse temporaneo. Proprio come prevede il progetto di Ichino».
Quali sono le proposte più interessanti del sindacato?
«Il richiamo di Bonanni alla necessità di aumentare i salari dei lavoratori flessibili è certamente interessante: si potrebbe realizzare abbassando il cuneo fiscale e incentivando l’assunzione di giovani. Le ricordo che il costo del lavoro in Italia è davvero molto elevato e che negli ultimi 15/20 anni il divario nella distribuzione dei redditi è aumentato. L’aumento dei salari, dovrebbe, però, procedere di pari passo con l’aumento della produttività, come ha sottolineato il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia».
È realistico che l’impresa accompagni il dipendenti licenziato nella ricerca di un nuovo posto di lavoro?
«Certamente. Anche perché i costi nell’accompagnare il lavoratore verso un’altra occupazione potrebbero essere condivisi con le Regioni e comunque risulterebbero meno incidenti di quelli previsti attualmente in caso di esubero del personale. Secondo la proposta di Ichino, uno dei cardini sarebbe l’estensione a tutti del trattamento speciale di disoccupazione, pari all’80% della retribuzione per il primo anno dopo il licenziamento: il trattamento completamente a carico dell’azienda sarebbe solo del 10% in questo primo anno e salirebbe all’80% solo al secondo, spingendo così le imprese ad occuparsene decisamente. Inoltre, con un buon servizio di continuità professionale (outplacement) si riuscirebbe a centrare l’obiettivo del reinserimento della persona in una nuova occupazione entro l’anno, con evidente beneficio per tutti. Credo che per riformare il sistema sia necessario tenere presenti almeno quattro punti, che la proposta Ichino, contribuisce a sostenere».
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