Articolo tratto dal numero di Tempi di gennaio 2019 (attenzione, di norma l’accesso agli articoli del mensile è riservato agli abbonati: abbonati subito!)
Come abbonato e sostenitore mi è stato chiesto di dare le ragioni per rinnovare o fare ex-novo l’abbonamento a Tempi. Siccome non mi pare che mi sia stato chiesto di dare semplicemente un avviso, mi permetto di prenderla un po’ alla larga, riprendendo un intervento che feci agli albori della “rifondazione” di Tempi, il 6 luglio 2013. Probabilmente l’intervento è già stato pubblicato, ma per me è ancora attuale e qui è rivisto adattandolo a oggi.
Oggi, appunto! Sarà per la crisi di tutto – Chiesa, politica e società –, ma c’è un clima generale come se mancasse l’aria, il respiro libero. La questione è più profonda delle difficoltà istituzionali, che pure ci sono; riguarda l’impostazione della nostra umanità, la quale ha – almeno in passato in tempi ben più duri lo ha dimostrato – le risorse per risollevarsi, ma non le trova. Dice l’enciclica Lumen fidei promulgata da papa Francesco proprio nel 2013:
«Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce [quella della fede, ndr] potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo “nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo”. E aggiungeva: “A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga”. Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio».
Si sta parlando della fede come atteggiamento dell’uomo, non la fede cristiana in sé, ma la fede come condizione di cui l’uomo ha necessariamente bisogno per poter comprendere la realtà, come il bambino che impara perché si fida della mamma; come lo scienziato che in base a segni e intuizioni cerca il microrganismo che non ha mai visto prima; come le persone che si abbandonano a chi amano. Prosegue il testo dell’enciclica:
«Si è pensato di poterla conservare [la fede, ndr], di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione».
È per questo che manca il fiato. Manca la fede come dimensione cosciente della ragione, del suo impeto affettivo, del riconoscimento di una presenza positiva, per cui impegnare la vita. Come diceva André Malraux: «Noi siamo gli uomini peggiori di ogni tempo perché di tutto sappiamo che cosa è la menzogna e di niente sappiamo che cosa è la verità». Questo, secondo me, è il problema acuto di oggi, per cui, pensando soprattutto ai giovani, è come se non si avesse dove impegnare la libertà e l’ingegno. Ed è questo che fa sembrare i tempi molto più duri di quello che in realtà sono: manca la prospettiva e non c’è una generazione effettiva di speranza.
Certamente non è sufficiente la proposta “culturale” che domina l’attualità, perché fondamentalmente è un moralismo. Luigi Giussani ha dato una definizione secondo me eccezionale di moralismo: non è il privilegio dell’impegno o l’insistenza sull’impegno, ma è il privilegio di un valore su tutti gli altri e, precisamente, del valore che è sostenuto dal potere. Così oggi succede frequentemente che un comportamento – quello che corrisponde al politicamente corretto – domini su tutti gli altri. Basti pensare ai mutamenti nella concezione e nella pratica della sessualità, a certo giustizialismo, alla cultura (sic) del grillismo. L’impegno, anche quello più approvato pubblicamente, alla fine rischia di essere vissuto da tutti come un’inevitabile imposizione. Impressionante è la frequenza con cui si cambiano bandiere o si cade nell’astensionismo, che è forse la ragione principale del marasma politico.
FUORI DAL «TOTALITARISMO CULTURALE»
Tutto quanto sopra per dire che Tempi è veramente importante, perché un giornale ha un ruolo decisivo. Un giornale può essere l’espressione degli scribi di evangelica memoria, ovvero il feroce propugnatore del pensiero di chi comanda – non a caso Paolo VI parlava di «totalitarismo culturale». Oppure, un giornale può contribuire a sostenere la speranza degli uomini, a far sì che fede e ragione lavorino insieme per una maggior libertà, adesso e domani, evitando di degenerare in quello che Giuliano Ferrara chiama «giornalismo collettivo», dove tutti i giornali dicono inevitabilmente la stessa cosa.
Non è un mistero per nessuno che dietro l’esperienza di Tempi c’è una appartenenza, per la maggioranza a Comunione e Liberazione. Tuttavia i giornalisti di Tempi non si proclamano innanzitutto rappresentanti di ciò cui appartengono, ma responsabili della loro appartenenza, con la consapevolezza in questo verranno giudicati dagli altri anche come rappresentanti. E tale consapevolezza è fattore decisivo di intelligenza, che nasce dalla umiltà e dal confronto. Tempi è l’invito a fare dell’appartenenza di ciascuno, in modo assolutamente laico, popolare, una possibilità di proposta, di incontro e di approfondimento sulle questioni fondamentali della realtà personale e sociale, in modo da investire anche l’agire pubblico, che sembra paralizzato.
PER CHI NON SI SENTE A POSTO
Quella di Tempi è sicuramente una posizione minoritaria, ma d’altra parte sono sempre state le minoranze a cambiare il mondo, mentre sono le maggioranze che lo conservano. Bisogna alimentare una inquietudine del pensiero e della vita. Come dice T. S. Eliot, gli uomini «cercano sempre d’evadere dal buio esterno e interiore [cioè dalla grande confusione] sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono», mentre quelli di Tempi, giornalisti e lettori, hanno l’inquietudine di quelli che si sentono “non a posto” e che vogliono essere più veri.
Per far questo bisogna aiutarsi, anche attraverso l’organizzazione, che in questo caso è fatta di abbonamenti, diffusione e collaborazione. A proposito dell’organizzazione, mi ricordo che a un incontro della dirigenza di Cl sul valore di questa, era intervenuto Enzo Piccinini, padre di Pietro, redattore del nostro giornale, dicendo: «Quando tu t’innamori di una ragazza, o le dai un appuntamento, o finisce anche l’amore». Ecco, secondo me, il nostro compito: c’è un amore, a cui bisogna dare un appuntamento. Sosteniamo Tempi.