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La macabra parata di scheletri che Milano non si merita

Critica alla trovata depressiva di Romeo Castellucci, Grand Invité di Triennale Milano: il Passato non è un mucchio di ossa che «non vogliono nulla»

Rodolfo Casadei
24/11/2021 - 6:18
Società
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Un momento della performance degli scheletri di Romeo Castellucci (foto dal profilo Instagram di Stefano Boeri)

Dal momento che era stato messo sotto contratto alla fine dell’anno scorso per ben quattro anni a venire, cioè per il quadriennio 2021-2024, Romeo Castellucci qualcosa di specificamente destinato alla città di Milano prima della fine dell’anno doveva farlo, e lo ha fatto. Il Grand Invité – non chiedeteci perché l’hanno voluto chiamare così – di Triennale Milano ha regalato alla città, appena tre settimane dopo Halloween, una marcia notturna di scheletri e bandiere nere che silenziosamente hanno preso le mosse dal fossato del Castello visconteo, si sono diretti in piazza Duomo passando per via Dante, facendo una capatina nel mezzanino della fermata Cordusio della metropolitana, inginocchiandosi davanti alla Loggia dei mercanti, sdraiandosi sul sagrato della cattedrale prima di prendere la strada del ritorno alla base di partenza. Un’iniezione di fiducia e di ottimismo di cui la città sentiva il bisogno…

Quelle feci sul volto di Gesù

Ma qual è il significato della performance di 100 figuranti inguainati di nero che dovevano far sembrare vivi 100 scheletri in pvc? Il comunicato di Fondazione la Triennale di Milano scandisce: «Un centinaio di manifestanti silenziosi marcia nella notte, nel centro di Milano. Sono l’umanità del Passato. Testimoni del Passato, hanno deciso di far sentire il loro peso. Questi scheletri non vogliono spaventare o incutere timore né, d’altra parte, divertire. Non vogliono nulla, in effetti». Castellucci, prolifico e pluripremiato regista e autore teatrale d’avanguardia, famoso per aver reso cupa e disgustosa con la sua regia una favola meravigliosa come Il flauto magico di Mozart, a Milano da alcuni era ricordato per aver portato al Teatro Parenti nel gennaio 2012 la pièce “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, totalmente priva di tensione drammatica, un’autentica pistola scarica, ma consegnata a memoria imperitura per la merda che veniva scagliata contro l’immagine del Buon pastore (Gesù) di Antonello da Messina.

Castellucci è passato dalle feci (finte) agli scheletri (finti pure loro): dell’essere umano racconta sempre il residuo repellente per dare sfogo al suo ribrezzo per le creature e per potere bestemmiare Dio, che non ha saputo allestire una creazione decente e immarcescibile. L’ideologia gnostica del teatro di Castellucci richiede un minimo di scavo, ma il comunicato della Triennale la rende trasparente: gli scheletri che si aggirano nella notte agitando bandiere nere SONO l’umanità del passato. Cioè gli esseri umani di ogni epoca altro non sono che il preludio del mucchio di ossa che lasceranno, vera cifra del loro essere. Ma ciò è doppiamente falso.

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Il passato è ossa, il presente è merda

Anzitutto non risponde a verità il significato letterale della frase: non c’è coincidenza fra l’umanità del passato e la rappresentazione macabra della notte milanese fra il 20 e il 21 novembre; questo fare confusione fra rappresentazione e realtà è molto televisivo, è molto social; gli intellettualoni della Triennale potrebbero cercare di evitarlo. E non è vero nemmeno in senso metaforico: l’umanità del passato è un’accolita di scheletri tutti uguali e tutti ovviamente privi di volto per Castellucci e per i suoi mentori Stefano Boeri (presidente della Triennale) e Umberto Angelini (direttore artistico Triennale Teatro); ma nella realtà, solo per restare alla condizione terrena, l’umanità del passato vive nelle nostre anime attraverso le sue opere, attraverso ogni realizzazione materiale e spirituale (basterebbe dire: culturale) che ha reso abitabile la terra e l’ha trasmessa a noi eredi; e vive nella nostra carne perché le nostre cellule sono figlie delle loro cellule, il nostro sistema immunitario è figlio di tutte le prove che hanno forgiato il sistema immunitario dei nostri antenati (compresa l’inglobazione di virus nel loro quindi nel nostro Dna).

Invece per la Triennale e il suo Grand Invité gli antenati «non vogliono nulla», perché il passato è nulla, è ossa e buio. Il passato è ossa, il presente è merda, solo il futuro promette pienezza. In un’intervista a doppiozero.com dell’anno scorso Castellucci dichiarava: «Il teatro non scomparirà mai, è invincibile, gravido di futuro, non ha nulla a che fare con il passato. Questo è il momento di sospensione in cui si tende l’arco. Presto arriverà una nuova dimensione in cui l’urgenza degli artisti si manifesterà con forza e nitore». Nel frattempo gli artisti martellano in tutti i modi quanto è brutta e senza scampo l’umanità sbagliata della creazione sbagliata di Dio.

Una messa in scena che annienta il contenuto

Così la rivista australiana Real Time Arts recensiva a cavallo fra il 2001 e il 2002 la Genesi di Castellucci, prodotta nel 1999: «La storia di Dio che crea amorevolmente l’universo, dopodiché l’uomo commette il peccato originale e viene perciò espulso dal Giardino dell’Eden, è ben nota. Meno nota, invece, è la versione mistica giudaico-cristiana che troviamo nello Gnosticismo, nella Cabala e nella filosofia Rosacroce. È questa la versione che Castellucci ci presenta, per mezzo di suoni, di performance fisiche e di spettacolari effetti visivi. Castellucci attinge alle stesse tradizioni [gnostiche] che hanno ispirato artisti come Baudelaire, Antonin Artaud, Peter Brook. (…) In questa versione più tenebrosa della Genesi, l’atto creativo non è frutto dell’amore, ma di un terribile errore. (…) L’atto della creazione è stato dunque una trasgressione violenta contro le leggi dell’universo. In questa ottica, tutta la Creazione contiene in sé il caos agitato di un proto-universo precedente all’atto creativo. Non è l’Amore che regna nell’universo, ma la Crudeltà. Non è l’uomo ad aver peccato, ma Dio. Tutta l’arte e il teatro di Castellucci costituiscono una storia che racconta questo atto iniziale di violenza primordiale».

Nel teatro dell’autore cesenate la coreografia, la messa in scena, i suoni assordanti e le luci abbaglianti, i vocalizzi e le combinazioni a caso di sillabe senza senso sovrastano e quasi annientano il contenuto letterario: la trama, i personaggi, il racconto, la parola portatrice di significato. Gli attori professionisti spesso non si distinguono da quelli presi dalla strada e dai figuranti, maschere o divise identiche ne fanno dei puri esemplari, degli specimen, come i poliziotti di Bros (la prima italiana si è tenuta a Milano l’11 novembre, ma la prima assoluta no, per vedere quella bisognava pagare in franchi svizzeri al Lac di Lugano il 15 ottobre scorso) o gli uomini in burqa nero della notte milanese degli scheletri. Si può ancora chiamare teatro di avanguardia: è all’avanguardia del processo di de-letterarizzazione che caratterizza, come ha spiegato Alain Finkielkraut nel suo recente L’après littérature, la cultura contemporanea, votata alla generalizzazione, alla trasformazione delle persone in astrazioni filosofiche o politiche.

Castellucci, anti-Appelfeld

Se per Lev Tolstoj «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» (Anna Karenina), invece per Castellucci le famiglie felici non esistono (la diarrea dei padri sospinge i figli a detestare i genitori e a lanciare merda contro il Figlio di Dio) e quelle infelici sono tutte assolutamente uguali e intercambiabili. Se per Aharon Appelfeld «Tutta l’arte degna di questo nome afferma instancabilmente che il mondo riposa sull’individuo. Il grande oggetto dell’arte sarà sempre l’individuo col suo proprio volto e col suo proprio nome», Castellucci è l’anti-Appelfeld per eccellenza, la sua passione è rendere anonimi anche coloro che hanno un nome.

Nove anni fa ci furono manifestazioni nei pressi del Teatro Parenti di persone che chiedevano di cancellare la recita che prevedeva la profanazione di un’immagine di Cristo. Fecero solo il gioco dell’autore, che poté atteggiarsi a martire di pulsioni censorie. Ma una domanda sull’opportunità di prestare le strade e i monumenti della città a una performance che attenta alla salute mentale dei suoi abitanti bisognerebbe porsela. La paura del contagio, l’isolamento da confinamenti, le paranoie su origini del virus, sicurezza dei vaccini, ecc. hanno reso ancora più fragile la salute mentale già precaria di decine di migliaia di persone afflitte dallo stress della vita quotidiana nella metropoli. Aggiungere il peso della lugubre sceneggiata notturna e di altre eventuali trovate a sfondo depressivo del Castellucci all’incerto equilibrio psichico di tanti concittadini, ha il sapore della crudeltà gratuita.

Tags: arteMilanostefano boeriTriennale di Milano
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