«Diamo ossigeno alle nostre carceri». Amnistia e non solo per riportare l’Italia nella legalità
Poche settimane fa il nuovo assessore alla Cultura del comune di Milano ha bloccato il progetto fortemente voluto dal suo predecessore Stefano Boeri: non ci sono i soldi, ha detto Filippo Del Corno, per portare la Pietà Rondanini di Michelangelo nell’androne del carcere di San Vittore. In quel fatto di cronaca milanese, archiviato senza nemmeno troppo rumore tra le istanze dell’austerity e le scaramucce della politica, c’è una triste analogia con quel che accade nelle patrie prigioni: nessuna Pietà per San Vittore, nessuna pietà per le carceri italiane, ripetutamente condannate da organismi internazionali per le condizioni inumane in cui il sovraffollamento costringe i detenuti. Eppure in queste ultime settimane qualcosa è sembrato muoversi.
La settimana scorsa il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ha visitato il carcere romano di Rebibbia. Il tema del sovraffollamento delle carceri è stato toccato anche dal premier delle larghe intese Enrico Letta nel suo discorso di insediamento. La commissione Giustizia del Senato, presieduta dal pdl Nitto Palma, ha da poco avviato un’indagine conoscitiva sul tema. Lo stesso Palma, rispondendo alle domande di Tempi, riconosce che, come ha scritto la settimana scorsa sul Corriere Luigi Ferrarella, più che di indagini le carceri hanno bisogno di decisioni coraggiose, ma rivendica l’importanza di un momento conoscitivo che possa fornire una base solida a quello operativo.
Più scettico il senatore Luigi Manconi (Pd), anch’egli membro della commissione giustizia di Palazzo Madama e da anni in prima linea per far tornare il sistema carcerario italiano alla legalità. «I dati in base a cui agire ci sono già – dice a Tempi. Io stesso, con una semplice telefonata al Dap (Dipartimento affari penitenziari) ho raccolto un’informazione significativa: ad oggi ci sono circa 15 mila detenuti al di sotto della soglia dei 18 mesi, prevista per usufruire della detenzione domiciliare». Si tratta della norma che consente ai detenuti che hanno meno di 18 mesi di pena residui di scontarli ai domiciliari, contenuta nel decreto svuota carceri dell’ex guardasigilli Paola Severino e in scadenza a settembre. «Personalmente – riprende Manconi – auspico una proroga del decreto Severino e un innalzamento della soglia anche a 20-24 mesi. Ridurre il numero delle condizioni ostative alla detenzione domiciliare darebbe ossigeno alle nostre carceri».
Parlare di ossigeno non è fuori luogo. Al 31 luglio 2012 la popolazione detenuta era di 66.009 detenuti contro una capienza complessiva di 45.588 persone. La legge prescrive che ogni detenuto debba avere circa 9 metri quadrati a testa a disposizione, ma sono oltre 400 i ricorsi per detenzione in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati. Poche settimane fa è stato diffuso il rapporto del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria nei 47 stati membri, fotografata al settembre 2011. Dopo Serbia e Grecia l’Italia è il paese del Consiglio d’Europa con il maggior sovraffollamento nelle carceri, dove per ogni 100 posti ci sono 147 detenuti. Siamo anche al terzo posto per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio, dopo Ucraina e Turchia. Oltre ai numeri pesano anche le condanne. Particolarmente significativa quella dell’8 gennaio scorso, emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel caso Torreggiani e altri lo Stato italiano è stato condannato per sistematica violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea ovvero la proibizione di trattamenti inumani e degradanti.
E il governo Monti prese tempo
Il “peso” di quella condanna è ben sintetizzato da Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale a Ferrara e firmatario, insieme a 136 tra giuristi e garanti dei detenuti, di una lettera sullo stato allarmante della giustizia e delle carceri al capo dello Stato. «Si tratta – spiega a Tempi – di una sentenza pilota che accerta che le carceri italiane sono strutturalmente lesive della dignità dei detenuti e che concede all’Italia un anno di tempo, da quando la sentenza diventa definitiva, per mettere in atto una serie di misure per risolvere il problema del sovraffollamento e risarcire coloro che ne sono stati danneggiati». Contro quella sentenza il governo Monti ha fatto ricorso, «con evidente intento dilatorio», osserva Pugiotto mettendo sul piatto un’altra “cambiale” in scadenza. «Presto infatti la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi su una delle leggi più “carcerogene” del nostro ordinamento, la Fini-Giovanardi in tema di stupefacenti, nata dall’inserimento delle sue norme nel decreto legge sui Giochi invernali di Torino. La sua disomogeneità tematica e l’assenza dei presupposti di straordinarietà, necessità e urgenza richiesti dalla Costituzione, la rendono un testo illegittimo. Bene hanno fatto la III sezione della Corte d’Appello di Roma e, ora, la Cassazione ad impugnarla alla Consulta». Il ritornello della mancanza di soldi non funziona come scusa, neanche per il governo delle larghe intese che deve inventarsi la formula per far convivere rigore e crescita. «Chi non riesce a cogliere la violazione di legalità in atto – riprende il professor Pugiotto – si ponga almeno il problema dal punto di vista economico: nel solo 2012 l’Italia è stata condannata a pagare circa 120 milioni di euro per non aver adeguato i propri standard giuridici ai livelli imposti dalla Convenzione Europea dei diritti umani, non solo in ambito carcerario».
Ma parlare di emergenza carceri significa anche parlare di amnistia, un termine che anche il magistrato di sorveglianza di Milano, Guido Brambilla, ha evocato (cfr. servizio precedente) come una misura che «potrebbe favorire un clima di pacificazione in questo momento storico». «Non so se si possa parlare di pacificazione nazionale – osserva il senatore Manconi. Ma carcere e giustizia vivono una condizione di eccezione, richiedono dunque provvedimenti di eccezione per ripristinare quella normalità che consenta poi di agire per risolvere il problema alla radice. Oggi la situazione è troppo congestionata». «È evidente – interviene il vicedirettore del Dap Pagano – che l’amnistia crea uno spazio di cui le nostre carceri hanno drammaticamente bisogno, però credo che tecnicamente debba essere l’inizio o il termine di un percorso, non un episodio isolato. Nel 2006 con l’indulto sono usciti trentamila detenuti ed era giusto che accadesse. Però da allora è mancato un progetto che evitasse di ritrovarsi nella stessa situazione». La necessità di un percorso che eviti uno svuotamento solo temporaneo delle carceri è sottolineata anche dal professor Pugiotto («la clemenza collettiva è una scelta politica imposta dalla necessità di recuperare la Repubblica al rispetto della sua stessa legalità, interna e internazionale», sottolinea) e dal Senatore Palma: «Personalmente credo che l’amnistia sia un formidabile strumento di deflazione dei carichi giudiziari e solo in parte (e non so in che misura) può incidere sul sovraffollamento carcerario. Ma parlare di amnistia fuori da un sistema di interventi più ampio significa porre in essere un intervento non decisivo, che si presta a strumentalizzazioni politiche di chi paventa rischi per la sicurezza dei cittadini».
Tenere conto della pericolosità
Il tema della sicurezza, tuttavia, va affrontato in un’ottica più ampia e di certo meno strumentale di quella che mira a suscitare paure nei cittadini. Perché se è vero, come scrive il giudice di sorveglianza Brambilla, che la quota dei detenuti socialmente pericolosi è molto bassa, è allora necessario pensare a strutture che tengano conto del livello di pericolosità. Può trattarsi di strutture in cui lo Stato delega, almeno in parte, la gestione a quelle associazioni del privato sociale che già operano con successo in tante carceri italiane? «Assolutamente sì – risponde Pagano. Noi come Dap stiamo facendo molto per i detenuti a media sicurezza e per le cosiddette pene alternative. Il carcere deve essere l’extrema ratio. Le strutture a bassa soglia di pericolosità, tuttavia, più che altro devono finire nelle pene alternative».
Molto più cauto il senatore Manconi, che, pur ribadendo l’importanza delle pene alternative, avverte che «se parliamo di strutture alternative il privato sociale può entrare, ma se si parla di custodia no: della custodia deve occuparsene lo Stato. Laddove dovesse essere necessario esercitare l’uso della forza ci deve essere solo lo Stato». D’accordo anche Nitto Palma per cui «la parte di sicurezza e ordine deve rientrare nelle competenze dello Stato». «Le pene alternative e la collaborazione con il privato sociale – conclude il professor Andrea Pugiotto – sono da valorizzare, ma il momento della custodia e dell’esecuzione della pena non va in alcun modo privatizzato. Il varco aperto dal meccanismo del project financing previsto nella scorsa finanziaria andrà per questo attentamente monitorato, per evitare questa deriva».
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Un detenuto ogni due giorni. È il ritmo con cui cresce il numero delle persone che muoiono nelle carceri italiane.
1/3 dei quali si suicida. Se in carcere valesse la stessa probabilità statistica che nella popolazione generale i morti per “infarto” e simili cause sarebbero non più di 3 o 4 ogni anno, cifre che invece nella popolazione carcerari si raggiungono in poco più di una settimana». I detenuti muoiono con una frequenza 20 volte maggiore rispetto ai loro coetanei liberi» sia per suicidio, sia per cause naturali.
Nelle carceri italiane due persone su tre sono malate e una persona su tre non è consapevole del proprio stato di salute. Parliamo di malattie infettive gravi: epatite, Hiv, tubercolosi, sifilide. Il tutto è causato dalla convivenza di troppe persone in spazi angusti.
Con un po’ di buona volontà, se si incrementa ancora la densità nelle carceri, se si toglie del tutto già l’inadeguata assistenza sanitaria, in qualche anno avremmo risolto il problema del sovraffollamento nei nostri istituti penitenziari, in barba ai 5 giudici della Grande Chambre che hanno respinto il ricorso del governo italiano in merito alla sentenza Torreggiani.
La pena di morte in Italia è stata abolita nel 1948. Lo stato italiano è palesemente in flagranza di reato, ogni anno coscientemente avvia alla pena di morte circa 150 persone.
L’omicidio in Italia è punito con pene severe. Ma i responsabili di questi 150 omicidi l’anno perché non vengono a loro volta condannati?
Ma la coscienza di coloro che si ostinano contro un’eventuale provvedimento di clemenza …………………….