«Le bombe in Siria, il barcone dalla Libia, la nascita di mio figlio a Milano. Vi racconto la nostra fuga dall’orrore»
È un giovedì pomeriggio quando giungiamo in via Aldini 74, a Quarto Oggiaro, nella periferia milanese. Qui, in una ex scuola, da ottobre 2013 la Fondazione Progetto Arca, in collaborazione con il Comune, ha allestito uno dei centri di accoglienza dei profughi siriani. Anche questo pomeriggio è una giornata di arrivi. Cinquecento persone si affollano nella sala d’attesa al piano terra, i bambini che piangono accanto alle madri con il capo coperto, oppure giocano in una sala allestita per loro, insieme ad alcune volontarie (di lingua araba, come tanti altri operatori che si affaccendano per rispondere alle richieste di chi è appena arrivato. Molti di questi ragazzi sono arabi di seconda generazione, cresciuti in Italia e nati da famiglie del Maghreb, o della Siria).
Nell’edificio c’è posto per 300 persone, ma da tempo il sovrannumero è diventato routine. Si cerca in tutti i modi di offrire una sistemazione dignitosa. Le pareti dell’ex scuola vengono imbiancate ogni due mesi, sono state allestite delle zone per la mensa, c’è anche un’area verde e silenziosa dove si può passeggiare. Uno per volta i siriani vengono chiamati in una sorta di reception, vengono registrati e ricevono un kit di prima necessità. Lenzuola, asciugamani, spazzolini da denti e sapone. Poi vengono accompagnati ciascuno nelle loro stanze. Sono passati quasi quarantamila siriani, nell’ultimo anno, a Milano: giungono dalla Sicilia, dopo il viaggio sui barconi della speranza. In questo esodo massiccio da guerra, rappresaglie, genocidi, solo quaranta hanno chiesto asilo in Italia. Il 99 per cento è qui di passaggio, diretto verso Svezia, Olanda e Germania. Lo scorso 5 settembre in via Aldini è accaduto un fatto eccezionale. Per la prima volta, anche in queste stanze è apparso all’improvviso un fiocco azzurro. È nato Mohammed, uno dei figli dell’esodo siriano.
FUGA DALLE BOMBE. La stanza in cui Mohammed ora sta facendo una poppata, accudito dai genitori, si trova al primo piano dell’edificio. È un luogo semplice, pulito e silenzioso: c’è un letto, altre due brandine usate come divani. I genitori di Mohammed sono siriani, vengono da Homs. Si chiamano Sahib, 27 anni, e Baraa, 21. Oltre al neonato in terra italiana, hanno un figlio di 2 anni che è nato in Libia. È Sahib a raccontare a tempi.it il lungo viaggio. «Vivevamo a Homs quando nel 2011 sono iniziati i primi problemi. Ci sono state le proteste dei civili, ma il governo di Bashar al Assad ha iniziato quasi subito a bombardare e uccidere chi protestava. All’epoca lo scontro era solo tra governo e cittadini, non si era ancora costituito quello che poi è stato chiamato “esercito libero”. Avevamo paura degli spari e delle bombe. Inizialmente abbiamo deciso di spostarci in una zona periferica della città che ci sembrava più tranquilla, ma dopo un po’ gli scontri si sono spostati anche nel quartiere dove vivevamo. Allora io e mia sorella nel novembre 2011 ci siamo trasferiti in Libia, dove lavorava già mio cognato. A bordo di un bus siamo giunti dopo un lungo viaggio a Tripoli, dove, dopo sei mesi, mi ha raggiunto Baraa. A Tripoli ho iniziato a lavorare, sono un muratore. Ma anche lì da tempo c’è il caos. Abbiamo pensato che non appena ci fosse stato possibile ce ne saremmo andati».
«L’ISIS FA PIU’ PAURA DI ASSAD». Sahib parla con voce pacata, timidamente. Spiega in arabo all’interprete che tutto il resto della sua famiglia è rimasto ancora in Siria. Li sentono tutti i giorni. Temono più Bashar al Assad o l’Isis? La risposta di Sahib è immediata, senza dubbi: «Daesh», il nome arabo dell’Isis. «La cosa che temiamo più di tutti è l’Isis, sono sunniti estremisti. Come loro, temiamo anche i miliziani sciiti che arrivano da Iraq, Iran, Libano. Io e la mia famiglia siamo sunniti, ma moderati. Vedi, io ho un tatuaggio (mostra un piccolo disegno, sembrerebbe una piccola punta di freccia sul polso, ndr). Se quelli di Daesh lo vedessero, mi taglierebbero il braccio. Anche chi di loro si definisce sunnita, c’entra poco con l’islam. Sono finanziati per combattere per lo Stato islamico. Per questo i nostri parenti hanno paura di tutti loro. E poi hanno paura anche del governo di Assad».
«A TRIPOLI IL CAOS». Sahib e Baara hanno abitato per quasi due anni in Libia, mettendo da parte i soldi necessari a partire verso il nord Europa. «Poi all’improvviso la situazione è precipitata», prosegue Sahib. «C’erano dei trafficanti a Tripoli e sapevamo che erano loro che organizzavano il viaggio in mare. Non so dire chi siano esattamente, ma ho avuto l’impressione che operassero da tempo a Tripoli, anche quando c’era ancora Gheddafi, e per quello che so erano organizzati come una sorta di mafia, un gruppo di persone che cercano di arricchirsi con i viaggi verso l’Europa. A noi hanno chiesto mille dollari a testa per gli adulti, mentre i bambini viaggiavano gratis. Per fortuna, avevamo messo da parte la somma necessaria. Però per partire così all’improvviso non ho avuto tempo di saldare i conti con tutti i clienti che avevo, né di vendere tutto quello che avremmo lasciato. Abbiamo raccolto il possibile e siamo fuggiti. Il viaggio è stato difficile, ci hanno fatto attraversare stradine secondarie, fino ad una piccola cittadina sulla costa. Ci hanno portato in una grande casa, dove ci hanno raggruppato in un centinaio di persone, e ci hanno tenuto lì per 17 giorni. Ogni tanto ci portavano dell’acqua o qualcosa da mangiare».
IL VIAGGIO SUL BARCONE. «Poi ci hanno fatto salire su un peschereccio, una barca di circa 20 metri. A occhio, poteva contenere al massimo 800 persone. Noi eravamo mille. Novecento adulti e 150 bambini. La barca era di tre piani. Nella stiva mettevano gli africani e i bengalesi. Nel piano intermedio hanno messo le famiglie, compresi noi, mentre nella parte superiore ci stavano quelli che viaggiavano da soli. Non c’era nemmeno lo spazio di muoversi, ma non ho visto membri dell’equipaggio armati. Ci davano ogni tanto un po’ di biscotti e di acqua. Baara era incinta, ma non avevano particolari riguardi per lei, che per fortuna però aveva portato con sé un po’ di acqua in più, per non soffrire la sete. Il viaggio è durato 20 ore, poi ci hanno salvato gli italiani (membri di equipaggi impiegati in Mare Nostrum, ndr)».
Sahib racconta che «ci hanno fatto sbarcare in Sicilia, ma non conosco il nome esatto della città. Poi, da lì, ci hanno diviso da mia sorella. Lei l’hanno fatta partire in aereo, ma Baraa, che era al nono mese, non hanno voluto che viaggiasse in aereo. Così ci hanno fatti salire su un pullman, che è arrivato in Puglia e da lì, dopo 40 ore di viaggio in tutto, siamo arrivati a Milano. Era il 4 settembre. Siamo arrivati in Stazione centrale dalle due alle dieci, poi ci hanno portato qui in via Tadino».
«HO PIANTO DI GIOIA». Di solito, varcare le soglie di questa scuola per molte delle famiglie ospiti è già la prima grande emozione, dopo giorni di paura, sconforto, fatica. Un luogo dove recuperare le forze per qualche ora, prima di riprendere nuovi viaggi verso il nord Europa. Per Baara, così piccola anche con il suo pancione, invece, Milano è stata una tappa che porterà per sempre con sé. Ricorda Sahib, sorridendo mentre allatta con una siringa il bambino, da cui non distoglie mai lo sguardo: «La notte del 4 settembre, alle due, Baara ha avuto le doglie. Mohammad è nato alle cinque del mattino. Fino a quel momento, mi sentivo soffocato da un peso, durante tutti questi giorni di viaggio, durante la fuga. Poi mi hanno dato in braccio il bambino. E quando l’ho tenuto fra le mie braccia, sono scoppiato a piangere. Di gioia. Non avevo più nessun peso. Ora partiremo ancora. Il nostro viaggio non è finito, andremo in Svezia per raggiungere altri parenti che sono lì. Dovremo ricominciare tutto da capo. Cercare una casa, un lavoro. Però no, adesso non abbiamo paura».
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