A Roma ogni pietra “è”

Una mattina nella capitale

Ogni volta che da Milano vado a Roma mi sembra di cambiare pianeta. C’è qualcosa nell’aria, nelle pietre, di radicalmente diverso. Come in questa mattina di maggio sotto a un cielo terso, spazzato dal vento di ponente. La prima evidenza che impercettibilmente mi soggioga nelle vie strette tra ponte Vittorio e piazza Navona, è la bellezza. La bellezza dei muri scoloriti eppure imbevuti di secoli di sole, nelle sfumature del terracotta e del rosso; la bellezza dei glicini che si arrampicano nodosi nei cortili, e li colmano del loro effimero rosa. Sono le botteghe d’antiquario buie attorno a via dei Coronari: in una vetrina un ritratto di dama pallida mi fissa, tanto che mi devo fermare. Come se l’avessi già conosciuta, altrove, o in un tempo di cui mi sono scordata. E questa piazza che si apre inaspettata tra i vicoli, come una corte, così che il cielo sopra si allarga in tutto il suo azzurro regale? Regale come le brune Madonne nelle nicchie, sui muri, sotto ai baldacchini barocchi. E allungare lo sguardo in una viuccia stretta e storta, ed esserne risucchiata, costretta a entrare: quando ancora potrò vedere questa vite americana avvinta ai muri, e questa piccola piazza irregolare dove un raggio di sole penetra obliquo, come un clandestino? Desiderare di perdersi, di non trovare più la strada; di lasciarsi condurre nel dedalo dal caso dentro a silenziosi cortili, dove gatti guardinghi mi fissano, le pupille ridotte a una fessura; e poi se ne vanno adagio, da padroni, coi loro pigri passi di velluto.

 

Ma quest’altro pianeta, mi domando, questa città diversa, in che cosa davvero è differente dalla mia? È che – è difficile a dirsi – a Milano si respira un’ansia di fare, di andare, di un tendersi altrove, oltre, in un’urgenza che ci spinge, e ci fa  camminare veloci. Qui invece, penso contemplando da un ponte il Tevere che scorre e sembra immobile, ogni pietra “è”, è già, consiste in sé. E per questo gli automobilisti incagliati nel traffico inveiscono, sì – ma neanche, in verità, poi tanto. Ogni cosa qui è, è già. Sono i Fori Imperiali maestosi di rovine: monumento a un impero che tacitamente racconta quanto poi poco conta e dura, il potere per cui tanto lottiamo. È la prospettiva di San Pietro dal fondo di via della Conciliazione, col colonnato che grandiosamente si allarga in un abbraccio universale. È la cupola, sulla esatta verticale della tomba di Pietro – «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam». È questo l’asse possente e  segreto di Roma, per cui ogni cosa, qui, è già, e non c’è fretta di andare. Come ben sanno i cavalli delle carrozze a piazza di Spagna, indolenti nell’ombra del pomeriggio; restii a partire, e a fatica spinti dai conducenti. Andare? E dove? Guardatevi attorno, su per questa trionfale scalinata di Trinità dei Monti. Qui ogni pietra onusta di secoli o millenni attende, paziente, soltanto il giorno della resurrezione.

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