Ogni ora che passa la vicenda dei due marò detenuti in India sembra trasformarsi sempre più in una trappola che alla fine scatterà sull’Italia intesa come stato sovrano. Palesemente i rinvii che da due anni e mezzo fanno sì che la giustizia indiana non esprima un giudizio di merito sul caso sono frutto di considerazioni prettamente politiche e non di burocratiche lentezze giudiziarie, come si vuol far credere. L’establishment indiano non può permettersi una sentenza di assoluzione o di incompetenza con rinvio dei due imputati ad altra giurisdizione perché questo solleverebbe le proteste dell’opinione pubblica indiana, anzi peggio: delegittimerebbe agli occhi del popolo indiano governanti e magistratura, che dimostrerebbero di non essere in grado di far valere l’indipendenza e la sovranità dell’India di fronte a uno stato straniero.
Che il diritto internazionale dia ragione all’Italia, che nel caso di un incidente come quello avvenuto due anni e mezzo fa al largo delle coste indiane la competenza investigativa e processuale spetti all’Italia, è argomento privo di qualunque rilevanza reale per l’opinione pubblica indiana come per il suo establishment. Questo è un caso che ha a che fare con l’orgoglio nazionale, con lo spirito di rivincita nei riguardi dei colonizzatori, col risentimento nei confronti dei bianchi. Gli indiani però non possono nemmeno permettersi una sentenza di condanna che faccia passare due militari in servizio che hanno evidentemente agito in buona fede per terroristi: essa metterebbe in cattiva luce l’India nelle sedi internazionali e renderebbe più difficile la collaborazione coi servizi di sicurezza degli altri paesi.
Che fanno allora? Tergiversano, fanno surplace, in attesa di un errore da parte italiana. Immaginiamo qualche atto sconsiderato da parte nostra, tipo una manifestazione con atti teppistici contro l’ambasciata indiana a Roma, oppure l’arresto pretestuoso di cittadini indiani in Italia che verrebbe percepito come una presa di ostaggi finalizzata a uno scambio di prigionieri, o altri malaugurati atti di intolleranza contro persone o interessi indiani: a quel punto l’India si sentirebbe finalmente legittimata ad emettere una sentenza di condanna contro i due marò e a spedirli in carcere.
D’altra parte, l’Italia che fa ricorso a tutti i mezzi leciti per ottenere la soddisfazione delle sue richieste, fa tenerezza. L’Italia che si appiglia al diritto internazionale, che chiama in causa l’Onu e l’Unione Europea, che minaccia di ritirare i suoi uomini dalle missioni di pace multilaterali, è destinata a non cavare il classico ragno dal buco: niente e nessuno farà mai cambiare idea agli indiani, con le buone. Con le buone, no. Con le cattive, forse. Ma qui bisogna riprendere le cose dall’inizio, cioè dal momento in cui Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono diventati due detenuti in attesa di giudizio nell’ambito del sistema giudiziario indiano. L’errore, si disse, fu quello di far salire a bordo della Enrica Lexie agenti di sicurezza indiani mentre la nave era attraccata nel porto di Kochi, nello stato del Kerala. Essi poterono così effettuare un fermo poi trasformato in arresto che a norma di diritto internazionale non avrebbero mai potuto compiere se la nave fosse rimasta nelle acque internazionali, dove era avvenuto l’incidente per il quale sono stati accusati i due militari italiani.
Quell’errore fu responsabilità di poche, individuabili persone, ed è irreversibile. L’Italia può dimostrare la validità della sua interpretazione del diritto in tutte le sedi indiane e internazionali che vuole, ma la sovranità nazionale indiana avrà sempre e comunque l’ultima parola, e Roma non manderà certamente i suoi corpi speciali a liberare e riportare in Italia i due marò: l’India, nonostante tutto, non è uno stato nemico, e certe cose si fanno solo contro i nemici.
Irreversibile è anche l’errore fatto all’indomani dell’inizio della crisi, quando si credette di rafforzare la posizione italiana chiedendo il supporto dell’Unione Europea e in particolare del suo Alto Rappresentante per gli Affari esteri, che a quel tempo era la baronessa britannica Catherine Ashton. Una decisione sciagurata e priva del benché minimo senso della storia: Londra ha mantenuto per un secolo l’India nella condizione di colonia britannica, il rancore indiano nei confronti del Regno Unito è forte e durevole.
Nel 1931 il Mahatma Gandhi si recò in Europa in visita a Roma e incontrò il duce Benito Mussolini, per il quale ebbe parole di lode. La cosa si capisce tenendo presente che, lontani per formazione e pensiero politico, entrambi avevano in comune lo stesso avversario: l’imperialismo britannico. Anziché chiamare in causa l’Unione Europea e il suo Alto Rappresentante per gli Affari esteri, al momento della crisi il governo di Roma si sarebbe dovuto presentare a quello di Nuova Delhi come l’erede di quello che, sessant’anni prima, si era misurato in una guerra sanguinosa con gli inglesi già colonizzatori dell’India. Capisco che la cosa non sarebbe rientrata molto bene nella narrazione antifascista della storia italiana, che la memoria storica degli italiani ha interiorizzato un motivato giudizio negativo sull’epoca fascista, ma per il bene dei nostri militari prigionieri lontano da casa e nell’interesse del prestigio internazionale dell’Italia, si sarebbe per una volta potuta fare un’eccezione e parlare agli indiani in questa maniera: «Cari fratelli indiani, noi non siamo veramente gente di razza bianca nel senso che voi l’intendete, siamo dei mediterranei frutto di mille incroci e influenze; non siamo mai stati in buoni rapporti coi britannici che vi hanno sfruttato per un secolo intero, anzi abbiamo combattuto contro di loro una sanguinosa guerra fra il 1940 e il 1943; se a partire dal 1948 voi vi siete liberati del giogo britannico, è anche grazie al fatto che il loro impero era stato molto indebolito dalle perdite umane, militari e materiali che avevano patito nella guerra contro di noi e contro gli allora nostri alleati tedeschi. Se siete liberi oggi, è grazie anche al sangue italiano sparso nella nostra guerra contro i britannici. Mentre loro non hanno saputo fare di meglio che mandare migliaia dei vostri a morire sugli Appennini italiani fra il 1944 e il 1945 combattendo contro i tedeschi che nel frattempo avevano occupato l’Italia».
Decine di cimiteri di guerra del Commonwealth sparsi per tutta Italia sono testimoni di questa verità. Ecco, un discorso politicamente scorretto come questo avrebbe certamente aperto qualche varco psicologico nel cuore degli indiani, diversamente dai riferimenti all’Unione Europea. Che per loro è semplicemente il club delle antiche potenze coloniali decadute, costrette a collaborare fra loro perché i popoli che avevano sottomesso si sono ribellati e hanno decolonizzato le loro terre e le loro menti.
Così si sarebbero dovuti impostare i rapporti con le autorità indiane sin dall’inizio per creare un clima di simpatia e di intesa. Questo si sarebbe dovuto fare, sul versante delle “buone”. E sul versante delle “cattive”? Su quello siamo ancora in tempo a fare qualcosa. Del tipo: «Ah, sì, non si può fare niente per velocizzare l’iter giudiziario dei due militari italiani? Ah, sì, alla fine saranno condannati? Ah, sì, dei nostri elicotteri Westland Agusta non vi importa più nulla, è un contratto che può saltare? D’accordo, vuol dire che li venderemo al Pakistan. Al Pakistan venderemo elicotteri, blindati Lince, visori notturni, pistole Beretta, sistemi di puntamento, satelliti, e chi più ne ha, più ne metta. A prezzo scontato, per essere sicuri che li comprino da noi. È un paese strategico per noi, dunque crepi l’avarizia. E adesso che lo sapete, e adesso che ve l’abbiamo detto, fateci sapere se ci saranno novità sul caso dei nostri marò».
Scommettiamo che il telefono squillerebbe in meno di 48 ore, e che la situazione si sbloccherebbe?