Biden costretto a bloccare la commissione anti fake news. «Colpa delle fake news»
Joe Biden è stato costretto a sospendere l’inquietante “Consiglio per il controllo della disinformazione” (Disinformation Governance Board) istituito a fine aprile dal dipartimento della Sicurezza interna degli Stati Uniti. Dopo appena tre settimane dalla sua nascita, una delle creature più lontane dalla mentalità libertaria americana mai concepite da un’amministrazione Usa (non a caso subito ribattezzata dai suoi critici “ministero della Verità”, omaggio a Orwell) sembra già destinata al cimitero delle brutte idee. E comunque sono confermate le dimissioni della molto discussa Nina Jankowicz, l’esperta di “lotta alle fake news” scelta da Biden per guidare il team.
Trentatré anni, ricercatrice del National Democratic Institute e del Woodrow Wilson International Center, in seguito all’annuncio dell’istituzione del board anti disinformazione la Jankowicz è rimasta per giorni sotto un diluvio di critiche e pernacchie per via di diverse passate uscite pubbliche non proprio degne di un cacciatore di bufale “ufficiale”, e per via delle sue evidenti posizioni politiche democrat, fino alla messa in discussione della libertà di espressione. Insomma non sembrava proprio la persona più adatta a rappresentare un organo già di per sé contestato a causa dell’ambiguità del compito assegnatogli (poco si è capito in tre settimane, a parte vaghi riferimenti a “prevenire la diffusione di fake news attraverso i social network”, specialmente “sui temi dell’immigrazione irregolare e della Russia”), e per di più creato dichiaratamente in vista delle elezioni di mid-term. Elezioni che per Biden rischiano di essere una batosta.
Nina Jankowicz «vittima di attacchi coordinati»
Non è chiaro che fine farà il Disinformation Governance Board dopo la sospensione, ma si capisce perché da un paio di giorni almeno mezza America festeggia per il suo frettoloso congelamento. Tuttavia la colossale figuraccia di Biden e del suo governo a quanto pare non è riuscita neppure a scalfire la famigerata “bolla” progressista , l’unico posto negli Stati Uniti dove queste trovate orwelliane possono trovare consenso. Esempio a caso: il Washington Post, primo giornale a dare la notizia della sospensione della commissione anti fake news, ricalcando diligentemente la versione del dipartimento della Sicurezza interna, presenta Nina Jankowicz come una impeccabile esperta «nel campo della lotta alla disinformazione e all’estremismo» caduta «vittima di attacchi coordinati online», ovviamente orchestrati proprio dai malvagi disinformatori che ella combatteva.
Scrive il quotidiano di Jeff Bezos:
«All’interno della piccola comunità dei ricercatori anti disinformazione, il suo lavoro era stimato. Ma nel giro di ore dalla notizia della sua nomina, Jankowicz è stata spinta sotto i riflettori dalle stesse forze che aveva dedicato la sua carriera a combattere. Il board e il dipartimento per la Sicurezza interna sono stati criticati tanto per il nome inquietante [del board] quanto per la scarsità di dettagli sulla specifica missione (il segretario Alejandro Mayorkas ha detto che “avrebbe potuto fare di meglio nel comunicare che cos’è e cosa non è”), ma è stata Jankowicz il bersaglio degli attacchi più aspri, il suo ruolo è stato distorto, divenendo l’obiettivo numero uno nel web della destra. È stata sottoposta a un incessante fuoco di sbarramento a base di molestie e abusi, mentre false informazioni incontrollate sul suo lavoro continuano a circolare in modo virale».
Quali calunnie?
L’ampia cronaca del Washington Post insiste ricostruendo per filo e per segno da chi sarebbe partita la campagna di presunte menzogne e immancabili «dichiarazioni decontestualizzate», chi le avrebbe rilanciate, i giornali che ci avrebbero ricamato sopra per colpire l’incolpevole Jankowicz. Senza tralasciare, ovvio, un paio di accenni alla «malafede» di tutta questa gente. Peccato che in perfetto stile da “lotta alle fake news” (o da disinformation governance board, se preferite), le presunte calunnie non sono mai riportate.
Eppure nell’orda degli hater della Jankowicz non ci sono soltanto i selvaggi di Fox News e il cattivone libertario Elon Musk che si vuole mangiare Twitter, a cui per altro la Jankowicz stessa, pochi giorni prima della sua nomina a capo del board, aveva fatto velato riferimento parlando di «assolutisti della libertà di espressione» che impossessandosi dei social media minacciano «le comunità marginalizzate», già oppresse da «una quantità sproporzionata di abusi» online.
Non sono state le bugie e gli hacker russi ad affondare il comitato anti fake news di Biden e la sua guida che si autodefiniva ironicamente “la Mary Poppins della disinformazione”. Come scrive il Wall Street Journal, «non è difficile vedere perché» la Casa Bianca si è vista costretta a rimangiarsi l’idea:
«[Jankowicz] ha anche scritto su Twitter: “Spero che adesso l’industria della tecnologia pubblicitaria la smetta di piazzare pubblicità per le mascherine o peggio (pura disinformazione!) negli articoli sul coronavirus”. Accadeva nel marzo 2020 dopo che le mascherine erano state scartate, poco prima che diventassero richieste. Ha dichiarato che la storia del portatile di Hunter Biden doveva essere vista “come un prodotto della campagna di Trump”. Nel 2016 ha twittato questa teoria della complotto: “Trump aveva non uno, ma due email server segreti per comunicare con una influente banca russa. Incredibile”. Medico della disinformazione, confuta te stesso».
Un’idea terribile
Un covo di pericolosi estremisti propalatori di bugie anche il Wall Street Journal? Ottima domanda. Peccato non avere una bella commissione in grado di rispondere ufficialmente. Il Consiglio anti disinformazione «non c’entra in alcun modo con la censura o la sorveglianza della libertà di espressione», anzi, non avrebbe nemmeno avuto «capacità operativa», ha precisato il dipartimento della Sicurezza interna per difendersi dalle critiche. Ancora il Wsj:
«Anche se fosse vero, una commissione che suona come un fact-checker governativo era un’idea oscena destinata ad alimentare la sfiducia dei cittadini. Perché le spiegazioni ci hanno impiegato tanto ad arrivare? E perché ingaggiare Ms Jankowicz, una militante democratica che ha più volte definito come disinformazione fatti o idee politiche che non le piacciono?».
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