La vergognosa storia dello scoop a scoppio ritardato su Hunter Biden
Presentare come rivelazione frutto di una propria inchiesta giornalistica una notizia vecchia di 17 mesi non è il massimo della correttezza deontologica. Quando poi la notizia è stata ignorata e bollata come fake news dalla stampa mainstream alla quale appartiene la stessa testata che oggi la ripropone, e bannata dai social con la stessa motivazione, il sospetto che la partigianeria politica abbia a che fare con lo scivolone prende corpo.
Social e giornali in difesa di Hunter Biden
Sul New York Times del 17 marzo scorso si legge che in un computer appartenuto ad Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente degli Stati Uniti e personaggio sotto inchiesta per illeciti fiscali, è stato rinvenuto materiale scottante oggi in possesso del giornale. Peccato che la notizia circa l’esistenza del computer e di alcuni suoi contenuti potenzialmente rovinosi per la campagna presidenziale di Joe Biden sia stata data per la prima volta il 14 ottobre 2020 dal New York Post, il quotidiano newyorkese di simpatie repubblicane, col solo risultato di provocare una scandalizzatissima levata di scudi da parte della community dei servizi segreti e dei social media.
I primi dichiararono pubblicamente che si trattava di disinformazione di provenienza russa che mirava a danneggiare Joe Biden, avversario del presidente in carica Donald Trump nelle imminenti elezioni del 3 novembre, i secondi bloccarono account e resero non condivisibili i contenuti di chi postava la notizia.
Adesso che lo dice il New York Times è vero
Scrive il New York Times del 17 marzo scorso: «Persone a conoscenza dell’indagine hanno fatto sapere che i pubblici ministeri hanno esaminato le email tra Hunter Biden, Devon Archer (un suo socio – ndt) e altri personaggi connessi con la Burisma (la società ucraina che avrebbe pagato 50 mila dollari al mese a Hunter fra il 2015 e il 2020 per sedere nel suo consiglio di amministrazione e svolgere funzioni di consulente, proprio mentre suo padre Joe era vice presidente nell’amministrazione Obama e gestiva il dossier l’Ucraina – ndt) e altre attività commerciali all’estero. Queste mail sono state ottenute dal New York Times da una cache di files di un computer abbandonato dal signor Biden in un negozio di riparazioni del Delaware. Le mail e altro materiale nella cache sono stati riconosciuti come autentici da persone che sono familiari con essi e con l’indagine».
Il pezzo del New York Post del 14 ottobre 2020 esordiva così: «Hunter Biden presentò suo padre, l’allora vice presidente Joe Biden, a un alto dirigente di un’azienda ucraina dell’energia meno di un anno prima che Biden senior esercitasse pressioni su pubblici ufficiali in Ucraina perché licenziassero un procuratore che stava investigando sulla compagnia, secondo il contenuto di email ottenute da noi del New York Post. (…) La straordinaria corrispondenza, che contraddice la dichiarazione di Joe Biden secondo cui “non ho mai parlato con mio figlio dei suoi affari all’estero”, è contenuta in un personal computer che si rivela essere una miniera di informazioni. Il computer è stato consegnato in un negozio di riparazioni del Delaware, stato di residenza dei Biden, nell’aprile 2019, secondo il proprietario del negozio».
E i social bloccarono e punirono il New York Post
Nell’ottobre 2020 l’articolo del Post sollevò reazioni furiose. «Per me questa è la classica operazione da manuale sovietico russo messa in opera», dichiarò senza esitazioni l’ex direttore della National Intelligence James Clapper alla Cnn. Gli fecero eco più di 50 ex alti dirigenti dei servizi segreti statunitensi, che in una lettera aperta sentenziarono che la notizia aveva «tutte le classiche caratteristiche di un’operazione di disinformazione russa. (…) Se abbiamo ragione, siamo di fronte a un tentativo della Russia che cerca di influenzare il modo in cui gli americani votano in queste elezioni, e crediamo fermamente che gli americani debbano esserne consapevoli».
Il New York Post fu punito dai guru della Silicon Valley. Twitter chiuse l’account del Post per 16 giorni e impedì ai suoi utenti di condividere qualsiasi informazione relativa al computer di Hunter Biden o notizie sul suo contenuto. Chiunque tentasse di pubblicare la storia vedeva il proprio account bloccato. Facebook affermò che avrebbe “limitato la distribuzione” della storia, rendendo la condivisione delle informazioni altrettanto impossibile.
La mancanza di responsabilità delle istituzioni Usa
Il commento del Wall Street Journal sull’intera vicenda è sferzante. In un editoriale del 21 marzo scorso si legge: «Non sapremo mai quale effetto avrebbe potuto avere sulle elezioni di quell’anno l'”October Surprise” del 2020, il resoconto del New York Post sulla scoperta di un personal computer appartenente a Hunter Biden contenente ogni sorta di email imbarazzanti, se avesse avuto una maggiore circolazione. (…). Tuttavia le accuse contenute nel rapporto, secondo cui il figlio dell’uomo favorito per diventare il prossimo presidente aveva venduto le sue connessioni politiche familiari di alto livello a stranieri, compresa l’ipotesi che una fetta della torta fosse destinata a suo padre, meritavano di essere indagate».
«Ma un discreto numero di persone influenti dentro e fuori dal governo – negli alti ranghi della politica estera e dell’intelligence, nei media e nelle grandi aziende tecnologiche – sono state così allarmate dell’eventualità che ciò influisse sul risultato delle elezioni, che hanno tirato fuori uno dei più grandi trucchi di sparizione da quando Harry Houdini fece sparire un elefante da un palcoscenico di New York. (…) Normalmente, quando c’è il dubbio sull’origine di una storia esplosiva, le testate giornalistiche considerano loro compito accertare la verità. Normalmente, ci vogliono meno di 17 mesi per farlo. Ma normalmente non hanno la copertura fornita dalle società tecnologiche che impediscono alle persone di leggere la storia originale».
«Le aziende dei media e della tecnologia che si sono unite per nascondere queste informazioni potenzialmente critiche non avevano bisogno di scuse per farlo. Ma le ha sicuramente aiutate il fatto che un avallo alle loro azioni sia venuto da un augusto comitato di preoccupati firmatari di lettere, che si sono mossi rapidamente per screditare la storia. In una famosa lettera, più di 50 ex funzionari della sicurezza nazionale e dell’intelligence hanno messo in mostra le loro scintillanti credenziali e hanno affermato che il New York Post era colpevole di aver spacciato una storia che aveva “tutti i classici segni di un’operazione di disinformazione russa”. (…) La vergogna più profonda di questa storia è la mancanza di responsabilità tra le istituzioni americane. Nessuno che abbia collaborato in questa cospirazione contro la verità ha patito il minimo inconveniente. Ciò è corrosivo della fiducia pubblica e, infine, del sistema stesso. L’unico modo in cui si valutano le responsabilità in una democrazia è attraverso le urne. Ma come può funzionare quando le persone di cui vogliamo vagliare le responsabilità decidono quali informazioni gli elettori possono conoscere?».
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