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A tu per tu con i folli rei

Davide, Fiorenzo, Mattia. Sono i “mostri”, gli “assassini matti” che hanno accettato di raccontare a un giovane psichiatra le loro vite strappate tra droga e violenza. Immersione dantesca negli inferni della mente

Marina Corradi
10/08/2020 - 17:36
Magazine
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Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto
Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto – Foto di Caterina Clerici

Articolo tratto dal numero di agosto 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Immaginate di leggere un mattino sul giornale di un vecchio che è stato trovato incaprettato, le mani legate, gonfio di botte, morto in casa sua. Non per una rapina, non per un’esecuzione fra malavitosi. Senza alcun apparente motivo. Uno di quei casi di cronaca nera che ti incupiscono per la gratuita bestialità, per il marchio del male che portano impresso in ogni riga, reso più intollerabile dalla mancanza di qualsiasi decifrabile ragione.

Ma, molti anni dopo, in una cella di Opg (gli ex ospedali psichiatrici giudiziari, ora chiusi) l’assassino racconta. Di un giorno in cui aveva sette anni e, a passeggio con la mamma ai giardini, guardando un uomo con una gamba amputata aveva detto: «Guarda quello, come somiglia al nonno!». Lo sconosciuto, sentendosi assimilare a un vecchio, aveva urlato alla madre: «Puttana, insegna l’educazione a tuo figlio!».

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Tutto qui, poche parole gridate per strada. Forse perché quel giorno faceva troppo caldo. Ma il bambino non dimentica l’offesa alla madre. Tiene d’occhio quell’uomo, nel quartiere. Finché, cresciuto, va a compiere la sua vendetta su quello che ormai è un povero vecchio. E tu che leggi provi freddo in una torrida giornata di luglio, chiedendoti quanto può il male su di noi, per germinarci dentro come un seme, dopo tanto tempo; e quanto può la follia, per fare sembrare ragionevole una simile vendetta per un remoto insulto su un marciapede. 

È una delle storie raccolte in Gli intravisti. Storie dagli ospedali psichiatrici giudiziari (prefazione di Eugenio Borgna e Massimo Clerici), Mimesis Edizioni. Le ha raccolte Jacopo Santambrogio, un giovane psichiatra lombardo che negli anni precedenti la chiusura degli Opg è andato da Montelupo Fiorentino a Barcellona Pozzo di Gotto, a Reggio Emilia, là dove per legge venivano rinchiusi i “criminali folli” ora trasferiti nelle nuove Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza).

«Era pedofilo, l’ho ucciso»

Davide, Fiorenzo, Mattia e gli altri accettano di parlare con il medico ragazzo. Le loro parole sono riportate integralmente, senza alcun commento, e solo in un momento successivo analizzate da Santambrogio. Sono quindi, queste interviste, l’immagine che un malato di mente assassino dà di se stesso, a chi lo voglia ascoltare. Quasi tutti i protagonisti non parlano molto del crimine commesso, ma soprattutto di un “prima”, lontano e ignoto, di adolescenze che infanzie disastrate, o cattive compagnie, o droghe spingono fuori dall’orbita di coloro che chiamiamo “sani”. (L’elemento droga, o alcol, ricorre spesso, quasi avesse agito da fattore scatenante di un disagio altrimenti non evidente; e viene ricordato con rammarico, solo ora quegli uomini comprendendo quanto danno abbia arrecato. Testimonianze che sarebbe utile dare ai quindicenni delle pillole del sabato sera, così ignari del male che si fanno).

Benché dichiarati “folli”, molti dei volti di questo libro colpiscono per la fredda lucidità con cui parlano di sé, del loro male, del mondo. «Faccio fatica a fidarmi, faccio fatica a dare le spalle alla gente, faccio fatica ad avere fiducia nella gente, penso che l’uomo sia malvagio, e forse perché sono malvagio io», dice Davide. E aggiunge: «La malattia mentale non è una cosa che hai, ma è una cosa che ti si radica a tal punto nell’anima, la malattia mentale è una cosa che sei. Io non ho la schizofrenia paranoide, io sono uno schizofrenico paranoide (..) Paranoide è qualcosa che io sono in modo strutturale, fin da quando ero ragazzo». Tu che leggi, da profana non sai quanto questa affermazione possa essere vera, ma speri che non lo sia: che la malattia della psiche e l’anima siano due cose distinte benché intrecciate, e che l’anima possa sempre un giorno liberarsi dai suoi intricatissimi, fossilizzati nodi.

Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino
Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino – Foto di Caterina Clerici

Lucidissimo pare anche Fausto, ex campione di lotta greco romana che scrive poesie e solo verso la fine del dialogo, come incidentalmente, dice: «Va beh, era pedofilo… Però… è una persona umana che ho sulla coscienza, insomma. Eh, l’ho ucciso». Come se fino ad allora tutto il suo parlare avesse solo cercato di coprire la follia, la colpa e il dolore.

La speranza dei prigionieri

Dolore: ecco, quanto di dolore c’è in queste storie che i giornali quasi sempre riferiscono in termini scandalistici, e per cui in tanti invocano punizioni esemplari, quando non la pena capitale. Un dolore di famiglie sfasciate, o di periferie terrifiche, o di una noia che chiede di essere annegata, e in fretta, in una qualsiasi sostanza. Un dolore o un male subìto che si fa seme e allunga invisibilmente le sue radici, finché il frutto, avvelenato, scoppia.

Eppure, nei prigionieri degli ex Opg Jacopo Santambrogio ha incontrato anche speranza. Diversi di loro hanno ritrovato la fede grazie magari a un cappellano buono – don Pippo Insana a Barcellona Pozzo di Gotto, don Daniele a Reggio Emilia – che li ha accolti e abbracciati. Molti di loro sognano, lasciando finalmente la cella, di potersi fare una famiglia, di lavorare. 

Sogni semplici, di uomini cambiati. «Il libro – scrive Eugenio Borgna nell’introduzione – ci aiuta a comprendere quanta umanità sopravviva anche in pazienti psichici che abbiano commesso reati, e che la psichiatria naturalistica non ha mai saputo riconoscere nei suoi dilemmatici significati». Perché c’è stata e c’è ancora, dominante, una psichiatria che cerca le cause delle patologie mentali nella pura neurobiologia: quasi il cervello fosse solo una macchina da regolare o sedare, quasi che il vissuto degli uomini non avesse peso. Il giovane Santambrogio appartiene invece alla categoria dei fenomenologi, di quelli che vogliono ascoltare l’uomo, tutto intero, con la sua memoria e il suo male e la sua speranza. 

Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia
Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia – Foto di Caterina Clerici

Ciò che conforta maggiormente negli interventi dell’autore è però una breve espressione, a pagina 41: «La malattia mentale è un mistero». Conforta, in un tempo in cui la scienza millanta di sapere molto più di ciò che sa, che un giovane psichiatra ammetta: la follia è un mistero. Di tutte le malattie la più oscura, quella che annoda e logora e contamina la falda interiore della persona intera. E Gli intravisti si intitola il libro, perché davvero di questi uomini si scorge solo una piccola parte, come se solo un’ansa di loro fosse raggiunta dalla luce del giorno.

«Ma quand’è che muori?»

Davanti alle storie di Davide, Lorenzo e degli altri spesso pensi a Dio, e ti domandi dov’era, quel certo giorno, e perché consente tanta sofferenza. Intanto gli Opg, spesso e a lungo luoghi di violenze e detenzione coatta degli psicotici agitati, non esistono più. Esistono le Rems, strutture in cui, fra immaginabili difficoltà, si tende alla cura e alla riabilitazione. L’insegnamento di Franco Basaglia, fautore della legge 180 che chiuse i manicomi, sembra quindi quarant’anni dopo allargarsi anche ai “folli rei”: non più considerati come una volta “mostri”, ma uomini da recuperare.

Chiudi queste pagine e ti restano in mente, enigmi irrisolti, le voci dei reclusi. Quello che in un eccesso di follia ha ucciso la moglie, e ora, curato con gli psicofarmaci, è un altro uomo, e sogna solo di poter parlare con la figlia ora sedicenne, mai più rivista, per chiederle perdono. Quello che, figlio di una prostituta, è diventato un serial killer: «Mia madre faceva la prostituta e mi trattava male. Mi voleva morto, mi diceva sempre: “Quand’è che muori?”. Suo padre mi paragonava sempre a mio padre e allora ho commesso degli omicidi. Ho ucciso prima un uomo, un mafioso, e dopo ho ucciso tre prostitute, perché si comportavano come…».

Cerchi allora di immaginarti quel bambino solo in casa, la madre che va e sparisce a tutte le ore, e torna con degli sconosciuti. Rumori e grida dietro alla porta della camera da letto, il cliente che se ne va, allacciandosi i pantaloni. «Ma quand’è che muori?», ripete al figlio la donna. Poi, quel bambino cresce e diventa un assassino.

Immagini, ancora, i titoli cubitali sui giornali: “Catturato il mostro”… E tu, che per anni hai scritto di cronaca nera e raccontato i frammenti sanguinosi di queste tragedie, ascoltando la voce dei “folli rei” senti di dover tacere, e inchinarti davanti al mistero di sofferenza e del male. Mistero immenso, che, pensi, è doveroso curare, ma che solo la croce e la notte del Sabato, e la Resurrezione, solo la Pasqua di Cristo può riscattare. 

Tags: eugenio borgnamalattia mentaleMarina Corradiopgospedali psichiatrici giudiziaripsichiatriatempi agosto 2020
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