
Inter ko, ora è colpa dei “maschi bianchi etero”

«La finale di Champions è la sconfitta della società, non quella della F.C. Internazionale, la nostra: italians con brutti tatuaggi nu metal tipo Acerbi, neanche un “seconda generazione”, figuriamoci terza, poca tattica e tanta ansia da prestazione, se non fosse per la coolness di Thuram sembrerebbe un saggio sulla fine del maschio etero bianco, col povero Di Marco peggiore in campo e il negozio di frutta e verdura dei suoi genitori nella radical chic Porta Romana (lì dove le ciliegie viaggiano sui venti euro al kg!). E dall’altra parte il Psg dei ventenni, meticciato Playstation con l’oro degli sceicchi, turbo capitalismo e striscioni ProPal, le maglie da calcio divisa dei maranza reietti di tutte le periferie del mondo, i petrodollari per comprarsi Doué e Dembélé, i saccheggi e gli scontri con la polizia a Parigi durante i festeggiamenti: il futuro, con tutte le sue contraddizioni. Rap e trap ci hanno fatto capire che rispetto alla Francia siano indietro di vent’anni, ora questa batosta indigeribile è la ciliegia costosissima sulla torta» (Rolling Stone, 1 giugno 2025)
Non bastava l’umiliazione, Di Marco che si chiama Dimarco e si perde subito Hakimi nella notte nera del 31 maggio o Lautaro che si perde e basta, e Inzaghi che abbandona la bagnarola prima del Mondiale per club e va ad allenare, ricco e dimenticato, l’Al-Hilal. No, ci voleva pure la diagnosi antropologica: non abbiamo perso una finale, abbiamo perso la nostra civiltà. Lo dice Rolling Stone. Noi, italiani brutti e monocromatici, figli di un’Italia che odora ancora di sudore e Nutella sul maglione, contro loro, i parigini della banlieue chic, turbocapitalismo e contraddizioni, Psg come profezia del mondo nuovo: Playstation, meticciato, striscioni ProPal, trap, saccheggi. Non è una sconfitta, è l’incubo di Houellebecq.
La sconfitta dell’Inter e la diagnosi di Rolling Stone
A noialtri interisti, cresciuti con l’idea che le partite si vincono col pressing alto e si perdono con Gresko, che Milito era Shakespeare e Pellegrini il Padre Nostro, a noialtri, dicevamo, tocca oggi fare l’esegesi dolente di ciò che abbiamo generato: non solo Acerbi con i suoi «tatuaggi nu metal», ma pure la predica etnosociologica di Rolling Stone. L’Inter, dice il mensile per chi sogna la rivoluzione prendendo saccheggi per performance urbane, è il funerale del maschio bianco etero.
Il Psg invece? È l’orgia multiculturale di un futuro nelle mani dei ventenni e che ci vede indietro di vent’anni rispetto alla Francia. Un reel girato a Saint-Denis, con Doué e Dembélé in slow motion e gli striscioni ProPal tra i petardi. Mica i coniugi Dimarco, che vendono ciliegie a Porta Romana a 20 euro al chilo: troppo antiquame, troppo poco fiction, poco banlieue. Ma di che Francia parlano a Rolling Stone?
Il mantra della seconda generazione
Dicevamo noialtri interisti. Che abbiamo visto perdere tante finali, una peggio dell’altra (no, forse peggio di questa no). Ma mai ci era capitato di dover leggere che la colpa è dell’assenza di «seconda generazione». O che «il fruttivendolo di Porta Romana» è il simbolo del nostro fallimento come civiltà. C’è dell’accanimento.
Due giorni dopo la finale, Parigi era un campo di battaglia. 559 arresti in tutta la Francia, con almeno due morti e numerosi feriti, tra cui un agente di polizia in coma farmacologico. A Grenoble, un’auto ha investito la folla, causando quattro feriti. A Dax, un 17enne è stato accoltellato a morte durante i festeggiamenti. Auto incendiate, negozi come Chanel assaltati con la bandiera della Palestina, scontro, insomma «il futuro», mica gli ultras della Sambenedettese. Sono anni che il Figaro denuncia «Violences: la République impuissante». Le Monde si chiede se l’integrazione “alla francese” non sia diventata una parola vuota. Le Point tira il freno d’allarme: «Il multiculturalismo forzato genera fratture e tribù, non unità».
«Il Psg dei ventenni» come archetipo del mondo nuovo
«Il Psg dei ventenni» come archetipo del mondo nuovo è una favola creata da chi confonde la playlist di Spotify con l’equilibrio sociale incurante di un modello che implode ogni settimana: quello della Francia post-nazionale, dove l’identità è dissolta in un (questo sì) costosissimo cocktail di slogan woke, furti di gruppo, ghettizzazione e rimozione linguistica. Un paese che nemmeno festeggia la mamma per la paura di sembrare reazionario.
Noialtri interisti saremo pure troppo etero e troppo bianchi – certo, non fosse per la coolness di Thuram! – per vincere una finale alla vigilia del mese del Pride, ma sappiamo ancora distinguere una inqualificabile miserevole Caporetto dell’Inter da una crisi di civiltà. E distinguere il futuro da un’apocalisse identitaria in streaming.
Della Francia, per esempio, sappiamo – per dirla à la Pascal Bruckner – che decenni di islamogoscismo benpensante hanno allevato, dalle rivolte del 2005, una generazione senza progetti, «se non quello di vomitare il proprio odio nei confronti della polizia, bruciare asili infantili, supermercati, scuole, centri di assistenza sociale e biblioteche», in una coreografia che si pretende ribellione ma è solo un rituale suicida di separazione dalla nazione. Le banlieue – quella favolosa “riserva di talenti” che ci dovrebbe affascinare come un trailer di Netflix – sono anche, dati alla mano, «ricettacolo dei peggiori istinti della plebe»: razzismo, antisemitismo, omofobia, nichilismo a bassa risoluzione.
Il fallimento del meticciato in Francia
E mentre Rolling Stone sente solo il rap suburbano, la République, nel mondo reale, fa i conti con 100 mila insegnanti minacciati da studenti e famiglie musulmane, con intere classi che reagiscono con furia eversiva a un quadro del Seicento, o con ragazze minacciate se “vivono all’occidentale”. Quanto al calcio, oltre all’ormai famigerato inno della nazionale francese Écris mon nom en bleu scritto da Youssoupha, rapper che ama la Francia come l’Inter investe per ringiovanire la squadra, ricordiamo agli amici più avanti di vent’anni che il meticciato alla francese ha prodotto 122 società calcistiche “separatiste”, islamizzate de facto, dove l’identità religiosa viene prima del regolamento.
Non parliamo solo di Karim Benzema, che il ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha accusato di simpatie per i Fratelli Musulmani. Né solo di Atal, il giocatore che, cinque giorni dopo gli attacchi del 7 ottobre, postava un video del predicatore Mahmoud al-Hasanat invocando una “giornata nera per gli ebrei”. No, parliamo del calcio dilettantistico, dell’agonismo da palestra suburbana, di sport da combattimento dove l’integrazione è fallita in favore della segregazione aggressiva.
L’islam non c’entra con l’Inter, ma il maschio bianco etero sì?
Per le prove citofonate a Benjamin Haddad, ministro degli Affari europei, o a chi ha firmato il rapporto “Fratelli Musulmani e islamismo politico in Francia”, commissionato dal governo. È lì, nero su bianco, che si documenta il programma lento, ma determinato, delle seconde e terze generazioni per islamizzare pezzo per pezzo la società francese. Altro che Playstation.
Che c’entrano i Fratelli Musulmani e l’islamismo radicale con la batosta dell’Inter? Ma assolutamente nulla. Tanto quanto c’entrava l’integrazione à la française celebrata ai Mondiali del “Black-Blanc-Beur” o i panegirici sul Psg come mirabile officina di riscatto sociale e totem morali per le seconde e terze generazioni. Tanto quanto c’entra il maschio bianco etero con la notte nera di Monaco. [Che non c’è mai stata. Perché peggio di un maschio bianco etero che gioca nell’Inter, c’è solo una donna bianca etero interista che ne scrive].
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