Il “nuovo ordine” che ha preso in ostaggio la Francia

Di Rodolfo Casadei
04 Luglio 2023
Sui giornali francesi i commenti alle rivolte nelle banlieue di questi giorni danno la colpa alla polizia o all'immigrazione incontrollata. Cosa c'è dietro alle proteste di questi giorni. Breve rassegna
Francia proteste militari
Due soldati armati di pattuglia davanti all'Arco di Trionfo a Parigi (foto Ansa)

Sulla stampa francese che conta i commenti sulle violenze e i saccheggi seguiti all’uccisione del giovane Nahel da parte di un poliziotto si dividono sostanzialmente in due campi: quello di chi accusa la brutalità della polizia e la politica delle istituzioni francesi per ciò che sta accadendo, e quello di chi vede nell’immigrazione incontrollata la miccia di un’esplosione inevitabile e nella morte del ragazzo il pretesto che molti aspettavano per dare il via a razzie. I primi trovano spazio soprattutto sul quotidiano Le Monde, i secondi soprattutto su Le Figaro.

I ragazzi in piazza che dicono «avrei potuto essere io»

«Sono ragazzi della stessa età di Nahel che reagiscono in maniera intima e violenta per una semplice ragione: sarebbero potuti morire nello stesso modo», commenta Fabien Truong, sociologo e docente dell’Università di Parigi VIII sul Monde. «Ognuno di loro dice a se stesso: “Avrei potuto essere io”. Ogni adolescente di questi quartieri conserva nella memoria ricordi di alterchi con la polizia. I controlli di identità sgradevoli e ripetuti sotto casa sono umilianti, generano stress e nutrono, alla lunga, un profondo risentimento. Sottintendono che la presenza di questi adolescenti, anche nei pressi di casa, non è legittima e deve essere giustificata. Questa logica del sospetto è quasi metafisica ed esistenziale. Questi giovani pensano che li si sottopone a controlli per quello che sono e non per quello che fanno. Sono esperienze che lasciano tracce durevoli».

Sono indispensabili dei cambiamenti: «Una polizia più vicina alla popolazione, che consolida la sua autorità con operazioni mirate e una repressione graduata, è una delle chiavi. Ma è una riforma di tutta la società che bisognerebbe realizzare! Lo sanno anche i poliziotti, loro stessi evocano le conseguenze della miseria sociale e morale davanti alla quale si trovano».

Le banlieue e l’eredità coloniale della Francia

Argomentazioni simili a quelle, sempre sul Monde, di Rachid Benzine, politologo e scrittore: «Di fronte all’aumento della povertà e della disperazione nei quartieri popolari, sono state sostanzialmente sviluppate, soprattutto a partire dal 2005 (data delle grandi sommosse nelle banlieue seguite alla morte accidentale di due adolescenti che fuggivano da un controllo di polizia – ndt), tecniche di mantenimento dell’ordine modellate più o meno su quelle americane o della polizia israeliana. Tecniche a volte efficaci per quel che riguarda un miglioramento dell’ordine pubblico, ma che hanno per effetto di accrescere le tensioni fra le forze di polizia e le popolazioni interessate, di distruggere ogni vera comunicazione fra di loro (…). La questione cruciale del rapporto tra l’istituzione di polizia e le popolazioni delle banlieue, per lo più provenienti dall’ex impero coloniale francese, è oggetto di una rimozione. Fino a quando non sarà affrontata in maniera radicale, non potremo sperare in un cambiamento positivo significativo. La Francia soffre della sua eredità coloniale. Nei fatti, l’uguaglianza fra i cittadini è lungi dall’essere una realtà, le popolazioni provenienti dall’ex impero sono ancora largamente stigmatizzate e viste con sospetto. Se non siamo capaci di mettere tutto questo sul tavolo e di discuterne insieme, le cose non faranno che peggiorare».

«Lo “sfogo” delle distruzioni delle notti scorse non ha nulla di legittimo e non può produrre giustizia. La risposta sta nella mobilitazione, nell’organizzazione e nella rappresentanza democratica, allo scopo di costruire attraverso la partecipazione politica delle istituzioni – la polizia come la giustizia o la scuola – “non umilianti”. Solo delle istituzioni riconosciute dai cittadini e che riconoscono i cittadini possono permettere di ricostruire la legittimità del monopolio della violenza di cui dovrebbe disporre lo Stato».

Le responsabilità del «sinistrismo culturale» in Francia

Tutt’altra musica sulla pagine del Figaro. Ultimo in ordine di tempo è intervenuto lo storico di origine ebraico-marocchina Georges Bensoussan, che nel 2002 aveva pubblicato sotto pseudonimo I territori perduti della Repubblica: antisemitismo, razzismo e sessismo in ambito scolastico, che raccoglieva le testimonianze di insegnanti e presidi delle scuole di banlieue.

«La negazione della realtà è largamente responsabile della situazione attuale, coltivata dalle classi dirigenti e nutrita di quel “sinistrismo culturale” che, in buona parte, domina i media del paese», dice in un’intervista del 3 luglio. «Qui si oppongono due sistemi di valori, e il sostrato socio-economico non spiega da solo questa situazione, come ci diceva già il sociologo Hugues Lagrange a proposito delle sommosse del 2005. A dispetto del discorso conformista che la vede come una nuova forma di razzismo, dobbiamo ricorrere anche all’antropologia culturale per comprendere i fondamenti di questa crisi. L’odio alimentato contro il paese di accoglienza nutre il risentimento e favorisce la negazione della legittimità dell’autorità, anche se l’affossamento del principio di autorità partecipa più largamente della deistituzionalizzazione della società evocata da Pierre Legendre, recentemente scomparso. E lo psichiatra infantile Maurice Berger, che studia da trent’anni l’iperviolenza dei preadolescenti, ha notevolmente analizzato queste società che funzionano secondo il “codice dell’onore” e da cui provengono un gran numero di questi ragazzi pervasi da un sentimento di onnipotenza e di assenza di limiti. E la cui follia incontra quella di un mondo il cui consumismo senza limiti sembra essere la sola trascendenza».

Le colpe dell’immigrazione eccessiva in Francia

Bensoussan attribuisce la responsabilità dell’immigrazione eccessiva non al governo, ma ai “padroni”: «Non si tratta di rigettare tutto quello che è stato fatto nelle banlieue negli ultimi quarant’anni, spendendo una somma considerevole di denaro stanziato in 14 diversi piani di intervento. Ma non si può fare a meno di domandarsi a cosa sia servito. Perché non si è attaccata la radice del problema, cioè l’immensa “fifa” vissuta dal grande padronato francese nel maggio del Sessantotto, quando ha avuto luogo la più grande mobilitazione di lavoratori che la Francia abbia mai conosciuto nel XX secolo. Costoro hanno deciso di non rivivere più un tale spavento, e l’immigrazione di massa è stata una conseguenza di quella grande paura. Cinquantacinque anni più tardi, il calcolo è riuscito: le classi popolari sono disorientate, frantumate dalla deindustrializzazione e dalle delocalizzazioni, dall’usura mentale della disoccupazione di massa e ultradecennale, minate da una disuguaglianza crescente nella ripartizione delle ricchezze, il cui corollario è uno sforzo redistributivo unico in Europa, che schiaccia le classi medie. (…) E quando l’integrazione è fallita per una parte dei migranti, la nazione francese, contrita e “colpevole”, resta silenziosa circa se stessa, la sua storia, la sua cultura e ciò che è come nazione. Patetica a questo riguardo è la moltiplicazione dei proclami sulla Repubblica, la laicità e la cittadinanza, che evitano accuratamente la parola “nazione”».

Bruckner: colpa dell’ultrasinistra insurrezionale

Pascal Bruckner, saggista e scrittore arrivato spesso ai ferri corti con le associazioni islamiste, scrive sul quotidiano: «Nel 2005 i rivoltosi, figli della televisione e del supermercato, chiedevano, come disse allora uno di loro, “soldi e ragazze”. Non volevano la rivoluzione proletaria né l’eliminazione della povertà, ma trarre vantaggio dal sogno del mercato. Nati francesi, volevano diventarlo ma si sentivano bloccati dal loro colore della pelle e, soprattutto, dalla loro origine sociale, dal loro indirizzo. Come oggi, non erano portatori di alcun progetto, se non quello di vomitare il proprio odio nei confronti della polizia, bruciare asili infantili, supermercati, scuole, centri di assistenza sociale e biblioteche con un approccio suicida che li separa ancora più nettamente dal resto della nazione. La loro ribellione, trasmessa su tutti i social, è sempre una forma di integrazione negativa, un rituale iniziatico dove la lotta contro la polizia prende il posto di una rivolta adolescenziale impossibile contro un padre assente o inesistente. La Francia li ignora o li disprezza, e la loro rabbia può interpretarsi come un grido di amore deluso, un modo di dire: ci siamo, esistiamo. Tali sono le banlieue: non un corpo estraneo nella Repubblica, ma lo specchio deformante delle passioni francesi, una riserva di talenti e di energia ma anche di barbarie potenziale – razzismo, antisemitismo, omofobia – ricettacolo dei peggiori istinti della plebe».

«Ciò che è cambiato nel giro di vent’anni, è l’apparizione di un’ultrasinistra insurrezionale, simpatizzante degli islamisti radicali, rabbiosamente antisionista, cioè antisemita, e che sogna, in mancanza della grande sera, di moltiplicare le notti di sommosse. La France insoumise (Lfi, il partito di Jean-Luc Mélenchon, che alle presidenziali del 2022 ha raccolto il 21,95 per cento dei voti al primo turno – ndt) e gli ecologisti, non potendo governare la Francia, vogliono renderla ingovernabile».

«Popolazioni che non credono di appartenere allo stesso popolo»

Prima di Pascal Bruckner era intervenuto Mathieu Bock-Côté, intellettuale canadese francofono autore di libri caustici sul politicamente corretto e sulle politiche identitarie: «Per molte ragioni c’è la tentazione di parlare di guerra civile, espressione che s’impone nel vocabolario politico ordinario. Ma questo riferimento è inesatto. Perché una guerra civile si vive in seno a uno stesso popolo, divide le famiglie, spezza le comunità e brucia anzitutto del fuoco della passione ideologica. Ora, a meno di non voler ridurre la nazione francese a una semplice entità giuridica, bisogna convenire che l’attuale sequenza mette in scena delle popolazioni che non credono di appartenere allo stesso popolo. Sarebbe meglio parlare di sommosse in seno a territori che si considerano enclave straniere, che la Francia ha fatto di tutto per riportare nel suo seno, a colpi di spesa pubblica faraonica, senza riuscirci. Altri ci vedranno i prodromi di uno scontro di civiltà».

«Questi raid non sono opera di militanti, anche se questi ultimi hanno cercato di prendere il controllo della marcia bianca (quella aperta dai parenti del ragazzo ucciso – ndt) iscrivendola sotto il segno dell’indigenismo, e anche se si può essere certi che trent’anni di propaganda antifrancese oggi portata avanti da Lfi e dalla sinistra radicale hanno certamente giocato un ruolo centrale nell’incancrenimento della situazione, sognando costoro apertamente una Francia in fiamme. Non esistono, in Francia, zone senza legge, ma solamente zone dove si esercita una nuova sovranità, che si esprime distruggendo tutti i simboli che rappresentano le autorità francesi. I territori perduti della Repubblica sono anzitutto territori dove la Francia è rigettata. Sarebbe meglio parlare di territori in situazione di partizione etnoculturale, dominati dagli spacciatori di droga e dagli islamisti, che alcuni vorrebbero spingere verso una dinamica insurrezionale. La popolazione locale desiderosa di integrarsi è presa in ostaggio da questo nuovo ordine».

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