
Il Deserto dei Tartari
Per 77 morti non c’è colpevole: perché non vogliono processare Breivik
Settantasette morti, dilaniati dalle schegge di una bomba o falciati dai proiettili di un fucile automatico, ma nessun colpevole. Così hanno deciso gli psichiatri del tribunale di Oslo, incaricati di condurre una perizia su Anders Behring Breivik, l’autore della strage di luglio nel centro della capitale norvegese e sull’isola di Utoya: al momento del delitto era incapace di intendere e di volere, perché affetto da schizofrenia. Per questo potrà essere internato, anche per tutta la vita, in una struttura psichiatrica; ma non potrà subire un processo ed essere condannato a una pena che rappresenti un corrispettivo del male compiuto. Ha vinto la linea dell’avvocato difensore, che sin dai primi giorni dopo il delitto aveva dichiarato in tutte le circostanze che Breivik non poteva essere condannato perché malato.
Ecco così che il più grande delitto politico della storia della Norvegia moderna viene derubricato a vicenda di cronaca nera, i parenti delle vittime si trovano privati della possibilità di relazionarsi in termini umani col responsabile della morte o della sofferenza dei loro cari: non possono più desiderare vendetta né concedere il loro perdono, non possono amare né odiare, perché l’uomo che sta di fronte a loro non è un essere pienamente morale e pienamente razionale. E questo nonostante la strage sia stato tutto tranne che un’improvvisa esplosione di follia, nonostante cioè abbia avuto una lunga pianificazione (dal 2002!) e sia stata spiegata e giustificata dal suo autore con un manifesto di 1.500 pagine scritto in inglese e postato sul web. Un eurodeputato italiano, il leghista Mario Borghezio, dichiarò che Breivik era senz’altro un criminale, ma che le sue non erano le idee di un pazzo. Nel corso di una trasmissione radiofonica sostenne che quelle idee erano le stesse di partiti politici che raccoglievano circa il 20 per cento dei voti degli europei, quindi di circa 100 milioni di elettori, sparsi nelle varie ultradestre anti-islamiche, anti-europeiste, anti-multiculturali, ultranazionaliste, localistico-identitarie, ecc.
Allora la domanda è: perché l’establishment norvegese, che inizialmente appariva orientato a un’incriminazione per crimini contro l’umanità che si poteva concludere con una condanna a 30 anni di carcere, ha ripiegato sull’infermità mentale, sul non luogo a procedere e su una soluzione igienico-sanitaria della tragedia? Una risposta pratica può essere che le autorità hanno voluto evitare di trasformare il processo in un palcoscenico per il personaggio e per le idee di Breivik, hanno voluto togliergli la possibilità di propagandare il suo credo, di influenzare chi seguirà le cronache del dibattimento, di produrre un tragico effetto-imitazione. Ad alcuni parrà un approccio prudente e pragmatico, quel che farebbe un sistema socio-sanitario ben funzionante: prevenire un possibile contagio e nuove vittime. Ma basta grattare un po’ per scoprire gli assunti ideologici e le contraddizioni logiche che stanno sotto la psichiatrizzazione del caso Breivik.
La propensione a dichiarare pazzo chi si oppone al sistema politico-economico sedicente progressista è stata caratteristica dei regimi comunisti. In Unione Sovietica «negli anni Settanta e nella prima metà degli anni Ottanta ogni persona, in carcere perché indiziata in base a uno degli articoli del codice penale riguardanti le cosiddette “attività antisovietiche”, veniva sottoposta a perizia psichiatrico-forense e, in un caso su due o su tre, veniva diagnosticata una malattia psichica, il che comportava il ricovero in ospedale psichiatrico anche per molti anni e, in certi casi, più di una volta» (Anatolij Korjagin). La Norvegia socialdemocratica non è l’Unione Sovietica comunista, ma la comune radice ideologica progressista favorisce la conclusione che il dissidente è un pazzo: il sistema imperniato sul primato dello Stato provvidenza è ciò che di più morale e razionale si possa immaginare, la sua eccellenza è scientificamente dimostrabile, così come verità presuntamente scientifiche sono i suoi dogmi relativisti intorno alle culture, le religioni, gli orientamenti sessuali, ecc. Pertanto chi sabota questo sistema non è un legittimo avversario politico, ma un ignorante o un criminale, e se non è nessuno di questi due è un pazzo. Breivik non è ignorante, essendo passato brillantemente attraverso il sistema scolastico norvegese, e non un criminale nel senso che i suoi delitti non sono motivati da egoistici desideri di arricchimento personale; dunque necessariamente è un pazzo, perché è pazzo chi rigetta un sistema politico perfetto, e le evidenti verità relativiste.
Qui però cominciano i problemi. La non imputabilità del reo è un cavallo di battaglia del progressismo, l’idea che la colpa dei delitti non è dei singoli ma della società, a causa delle condizioni di illibertà e di diseguaglianza prevalenti, è il nucleo centrale del pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau che si è fatto largo attraverso i secoli e ha modellato le menti di milioni di persone. Ma fino a che punto possono spingersi la non imputabilità e la non punibilità? Se prendiamo per buoni i parametri che secondo Freud definiscono la nevrosi, ovvero la malattia mentale in senso lato, quasi tutta l’umanità potrebbe vantare disturbi che ne ottundono la volontà, e perciò potrebbe addurre attenuanti che impedirebbero, in tutto o in parte, l’attribuzione di responsabilità per atti dannosi nei confronti del prossimo. Col caso Breivik il principio progressista di non imputabilità s’è già spinto decisamente troppo avanti: costringere migliaia di norvegesi a piangere i loro cari perduti come fossero vittime di una sciagura ferroviaria, o di una fuga di tigri da uno zoo, anziché vittime di un altro essere umano come loro, che le guardava e che a loro si rivolgeva con parole intellegibili mentre utilizzava armi automatiche per togliere loro la vita, ha in sé qualcosa di crudele e di destabilizzante. Anziché rassicurare mette l’angoscia: se la strage è frutto di follia, prevenire atti del genere attraverso l’educazione, la discussione politica, il dialogo morale, l’offerta di amicizia è inutile e impossibile. Contro le esplosioni improvvise della follia siamo disarmati, alla mercè del caso.
Tuttavia è chiaro che una delle motivazioni della dichiarazione di follia di Breivik è quella di rassicurare il popolo. Come si rassicurano i bambini. Lo Stato provvidenza socialdemocratico, lo abbia detto tante volte, infantilizza il cittadino: lo alleva in modo tale che resti eternamente dipendente dalla provvidenze dello Stato, che non riesca a immaginare un altro orizzonte di libertà. Il vantaggio per lo Stato di avere a che fare con una collettività di cittadini-bambini è che tendono sempre ad aggrapparsi alle gonne dello Stato-madre; lo svantaggio è che si spaventano facilmente e che si mostrano fragili in un numero impressionante di circostanze. Allora bisogna correre in loro soccorso con l’aborto facile in caso di gravidanze impreviste, la pillola del giorno dopo in caso di incoscienti rapporti a rischio di concepimento, l’eutanasia di fronte alla sofferenza della malattia, la depenalizzazione delle droghe psicotrope per attenuare l’angoscia o la noia di vivere, ecc.
Un processo come quello ad Anders Breivik il popolo-bambino non potrebbe sopportarlo: potrebbe ritrovarsi disorientato e incapace di articolare una risposta solida e serena di fronte alle argomentazioni dell’assassino, potrebbe lasciarsi sfuggire richieste e invocazioni di cose altamente scorrette come la vendetta o la pena di morte, potrebbe persino convincersi che Breivik non è un pazzo, ma un vero e proprio criminale politico, come lo furono Adolf Hitler, Pol Pot, Idi Amin, Slobodan Misolevic, ecc., politicamente e moralmente responsabili dei loro atti al di là delle nevrosi di cui potevano soffrire. Anche su questo versante tutti i popoli, non solo quello norvegese, soffrono una crescente deprivazione di esercizio della responsabilità e della facoltà di giudizio: sempre più la competenza di individuare e punire i criminali politici è delegata al potere internazionale del sistema che ha il suo vertice nella Corte penale internazionale; la competenza universale sui loro crimini, che dovrebbe esprimere un’umanità più progredita, corrisponde in realtà a un’umiliazione e infantilizzazione delle umanità al plurale, quelle che vivono nelle nazioni del mondo.
Concludendo, lo Stato provvidenza norvegese, progressista e relativista, non deve essere tanto sicuro della forza dei suoi principi politici e morali, se non ha il coraggio di metterli alla prova in un’aula di tribunale in un processo intentato a un cittadino che non si è limitato a contraddirli teoricamente, ma ha tradotto la sua critica in un comportamento assassino. Sembrerebbe essere una grande occasione per dimostrare l’intrinseca natura criminale delle ideologie identitarie e xenofobe, di contro all’inclusività delle posizioni multiculturaliste. Invece il progressista si tira indietro imbarazzato, cercando una scappatoia nel discorso della follia. Dimenticando che è stato un intellettuale di sinistra – sinistra post-moderna e decostruzionista – ad affermare la valenza politica della follia: «Il mondo ora si trova citato in giudizio e deve giustificarsi davanti a essa», ha scritto Michel Foucault. E allora diciamo pure che la Norvegia – e con lei tutta l’Europa che la pensa allo stesso modo – è vittima della dialettica del relativismo: avendo affermato che tutte le posizioni sono ugualmente vere e non vere allo stesso tempo in quanto tutte culturalmente condizionate, è rimasta totalmente sprovvista di forza intellettuale e morale per difendere la propria posizione relativista di fronte a un’espressione di pensiero forte. Fosse pure quello di un vigliacco assassino imbevuto di pensieri e riferimenti che non sono niente più di un bric-a-brac ideologico da adolescente.
1 commento
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono chiusi.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!