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Un suicidio non è un hashtag (e un algoritmo non salverà la vita dei giovani)

Davvero social network e carenza di sportelli diagnostici sono i primi complici dei suicidi di ragazzi ossessionati da tutto ciò che è dolore?

Caterina Giojelli
02/11/2019 - 2:00
Società
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«Il suicidio non è un hashtag»: quando a Ged Fynn, una vita alla guida della Catholic Children’s Society e oggi ceo di Papyrus, Prevention of Young Suicide, è stato chiesto dalla Bbc di commentare alcune delle immagini a cui Molly Russell aveva avuto accesso su Instagram, si è detto sconvolto.

MOLLY E INSTAGRAM

Molly, 14enne inglese, si è tolta la vita nel 2017, lasciando poche righe («la mia vita è diventata un problema per chiunque»), e un account zeppo di immagini inquietanti sulla depressione e il suicidio. La battaglia di suo padre Ian Russell, che fin dal primo accesso al profilo e alle ricerche di Molly ha accusato il colosso social di Mark Zuckeberg di avere «aiutato mia figlia a uccidersi», è arrivata a una svolta nei giorni scorsi, quando Instagram ha annunciato che avrebbe rimosso, insieme alle immagini di autolesionismo anche disegni, cartoon e meme che richiamano pratiche estreme, disordini alimentari e suicidi, e che un algoritmo avrebbe evitato di proporre siti e argomenti a questi correlati.

SEI PROPRIO SICURO?

In molti hanno gridato alla truffa: di fatto, spiega il Corriere, «se viene fatta una ricerca specifica su questi temi, sul social network appare tuttora una schermata che chiede all’utente se vuole ricevere assistenza o se è proprio sicuro di voler vedere certe immagini: in pratica richiede un’approvazione esplicita supplementare, come fa Facebook per i contenuti “sensibili”».

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LA BATTAGLIA DI IAN RUSSELL

Dal 2010 il numero di adolescenti che si è tolto la vita in Inghilterra e Galles è aumentato del 67 per cento. Nel 2018 ci sono stati 187 suicidi di ragazzini sotto i 19 anni (il 15 per cento in più rispetto all’anno precedente) e a Londra il tasso dei suicidi adolescenziali è aumentato in tre anni del 107 per cento, la prima causa di morte per quella fascia d’età. Si capisce perché la campagna di Ian Russell abbia avuto grandissima copertura mediatica, fino ad approdare negli Stati Uniti, dove è stata condivisa da numerose famiglie che hanno perso un figlio nello stesso in modo in cui Ian ha perso Molly.

I SUICIDI DEI GIOVANI AMERICANI

Anche in America i dati sul suicidio tra i giovani sono allarmanti. Il rapporto presentato il mese scorso dai Centers for Disease Control and Prevention, ha rilevato che dal 2007 al 2017, il tasso di americani di età compresa tra 10 e 24 anni che si sono tolti la vita è aumentato del 56 per cento, e che il suicidio rappresenta oggi la seconda causa di morte per i ragazzini di quell’età. Secondo Sally Curtin, autore del rapporto, l’aumento vertiginoso del tasso di morte autoinflitta (triplicato nella fascia 10-14 anni) rappresenta oggi per gli Stati Uniti un enorme «problema di salute pubblica». E anche qui gli esperti mettono all’indice la madre moderna di tutti i problemi: il social network.

GLI ESPERTI CONTRO I SOCIAL “LETALI”

«È noto che le ragazze siano vittime di bullismo online, più dei ragazzi», ha spiegato Igor Galynker, professore di psichiatria presso la Icahn School of Medicine e direttore del Mount Sinai Beth Israel Suicide Research Laboratory a New York City, «il tempo trascorso davanti a uno schermo è associato ad un aumento dei tassi di ansia, depressione e istinto suicida». «Il cervello degli adolescenti è molto sensibile al feedback dei coetanei e alla valutazione sociale e ora con i social media puoi controllare il tuo stato sociale 24 ore su 24, sette giorni su sette: quanti follower hai, quanti commenti ha ricevuto il tuo post e quanti mi piace», ha chiosato Caroline Oppenheimer, ricercatrice di psichiatria all’Università di Pittsburgh.

Secondo Albert Wu, professore di politica e gestione della salute presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, l’epidemia dilaga silenziosa perché «siamo riluttanti come società a parlarne», e accusa un sistema sanitario «che privilegia la salute fisica rispetto alla salute mentale». In attesa di implementare i servizi, spiega Rebecca Cunningham, direttrice del Centro di prevenzione degli infortuni dell’Università del Michigan, sarebbe auspicabile «ridurre l’accesso ai mezzi più letali per i ragazzi più vulnerabili e più a rischio».

IL “COLONIALISMO DIAGNOSTICO” INGLESE

Ma davvero è tutta una questione di prevenzione, medicalizzazione dei soggetti a rischio e di accesso ai social network? Quando a settembre dello scorso anno sono usciti i dati dei suicidi tra i giovani britannici, Barbara Keeley, ministro ombra del Labour, ha parlato di «scandalo nazionale», annunciando che il governo avrebbe investito cifre record per «fornire maggiore assistenza alla salute mentale nelle scuole»: «Ci siamo impegnati per un ulteriore investimento di 1,4 miliardi di sterline per sostenere una significativa trasformazione dei servizi di salute e cura mentale per bambini e giovani». Tutto questo in un paese che ha già esteso la giurisdizione degli specialisti a una serie di ambiti, dallo studio (il 26 per cento degli studenti universitari ricorre a servizi di consulenza e il numero di studenti che afferma di avere sofferto «problemi di salute mentale» al primo anno è 15.395, quintuplicato in un decennio) al lavoro (tre quarti dei lavoratori britannici dice di soffrire in silenzio di «problemi di salute mentale» e fioriscono le campagne di sensibilizzazione per autorizzare il dipendente a prendere dei giorni di malattia per stress, malinconia, per ansia o depressione). Un paese che ha già trasformato un soggetto in difficoltà in un malato dipendente dall’organizzazione medica.

L’ANESTETIZZAZIONE AMERICANA

In America, dove i bambini fin dalle elementari vengono impiegati nella scuola gender neutral, anti-Trump, ecologica e antirazzista, dove nulla deve turbare il sonno intellettuale degli universitari protetti dai safe space, dove dai salotti ai tribunali politicamente corretto e buonismo non fanno prigionieri, l’aumento del tasso di suicidi è coinciso con quello di chi è trattato con antidepressivi e oppioidi, farmaci con cui si è cercato sollievo, scorciatoie per mettere fine al dolore fisico, psicologico, emotivo, perfino esistenziale. Si calcola che l’abuso di oppioidi, più letale delle armi da fuoco, ucciderà mezzo milione di americani nei prossimi dieci anni. Davvero la mancanza di servizi ad hoc e i social network sono i primi complici dei suicidi di ragazzi, nati e cresciuti in una società ossessionata dall’autodeterminazione e dall’annientamento di tutto ciò che è dolore, ansia, paura, violenza, malattia?

DUE ANNI FA, IL BLUE WHALE

Davvero basta uno sportello o un algoritmo a salvarti la vita? Quando nel 2017 la psicosi “Blue Whale”, la balena blu che dalle profondità dei social network avrebbe istigato ragazzini e adolescenti a suicidarsi, è diventata virale (e sono fioccati i collegamenti con la morte di tanti giovani, dalla Russia all’Italia), Claudio Risè fu l’unico a osare in prima pagina sul Giornale (ripreso qui da tempi.it) un passo oltre al social network inghiottibambini: “Perché si fanno male? Perché, addirittura, vogliono uccidersi?”.

«Il fatto che un cinquantennio di educazione antiautoritaria e liberale si concluda con un curatore (o tutore) misterioso che ti impartisce istruzioni per progressivamente distruggerti e poi ammazzarti, cui obbedisci senza fiatare, ci insegna molte cose. La prima è che i ragazzi hanno bisogno di cura, altrimenti si cercano il curatore (…) Nessuno può vivere senza regole, soprattutto gli adolescenti. La personalità, per formarsi, ha bisogno di un contenitore, un sistema di regole. Senza di esse non avrà identità, si sentirà “nessuno”, spazzatura sociale (come definisce le sue vittime l’iniziatore di Blue Whale) e diventerà vittima di chi voglia essere il suo carnefice».

La seconda è che gli adolescenti, oltre che di regole, hanno bisogno di “un’educazione alla violenza”:

«Se nessuno gliela spiega, mostrandogliela in qualche modo, questa diventa un tabù, il cui fascino e potere (come insegnano antropologia e storia delle religioni) diventa invincibile. Blue Whale ha pochi mesi, ma in terapia da tempo si vedono crescere gli amanti del cutting, il tagliarsi, soprattutto braccia e gambe. Per il piacere di farsi male, di violare il proprio corpo, di fare un passo verso la distruzione. Ma anche per rompere una condizione di benessere anestetizzato dove, appunto, non incontrando né dolore né violenza, di cui non si può neppure parlare, non si prova spesso alcun piacere. Per riconoscerlo, dobbiamo fare anche l’esperienza del suo fratello negativo, il male».

SENZA DOLORE, CON LE STORIES DI INSTAGRAM

È quello che i ragazzini (ma anche le ragazzine, con i loro giochi crudeli) hanno sempre saputo, pestandosi più o meno duramente appena potevano prima che tutto sprofondasse nella virtualità e nel terrore di ciò che è chiamato bullismo, razzismo, sessismo e via dicendo. «L’educazione, vera, è iniziazione alla vita integrale: piacere e dolore, corpo e spirito, vita e morte. Se togliamo il dolore, lo spirito e la morte, anche il piacere svanisce, e la vita diventa incomprensibile. E ci si uccide. Per fretta di godere e devozione al politically correct, abbiamo semplificato in po’ troppo». Tolto il dolore, medicalizzato lo spirito, ridotta l’esperienza umana a una corsa alla tutela da pressioni di ogni genere, appaltata la cura degli adolescenti all’algoritmo, il soffitto si è abbassato. E forse la cameretta da adolescente, popolata dalle sole stories di Instagram, è diventata davvero soffocante.

Tags: Blue WhaleCenters for Disease Control and Preventionclaudio risèinstagramsocial networksuicidio
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