Basta la salute mentale per salvare una vita?

Di Caterina Giojelli
07 Settembre 2018
Medicalizzazione, prevenzione, servizi. Ma qualcosa sfugge al colonialismo diagnostico. Le cifre spaventose dei suicidi tra gli adolescenti del Regno Unito

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C’è qualcosa di veramente sinistro nel servizio dell’Independent sull’aumento del tasso dei suicidi tra i giovani del Regno Unito, c’è qualcosa di inquietante nell’uso di quel solco acritico chiamato “salute mentale”. Le cifre sono spaventose: dal 2010 il numero di adolescenti che si è tolto la vita in Inghilterra e Galles è aumentato del 67 per cento. Nell’ultimo anno ci sono stati 187 suicidi di ragazzini sotto i 19 anni (il 15 per cento in più rispetto all’anno precedente), a Londra il tasso dei suicidi adolescenziali è aumentato in tre anni del 107 per cento.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”] QUESTIONE DI COSTI, DICONO. Cosa è successo? «Sono aumentate le tasse scolastiche», «gli studi dimostrano che c’è un collegamento tra i social e l’aumento dell’ansia e della depressione in quella fascia di età», ma soprattutto «i servizi di salute mentale per i giovani non hanno ricevuto le risorse di cui hanno bisogno, ci sono tempi di attesa troppo lunghi, a volte fino a 18 mesi» – è l’accusa di Barbara Keeley, ministro ombra del Labour che ha parlato di «scandalo nazionale» –, «dobbiamo impegnarci ad aumentare la percentuale di budget destinato e offrire servizi di consulenza scolastica in ogni liceo». «Comprendere i fattori di rischio per il suicidio tra i giovani può aiutarci a prevenirlo», ha detto Ruth Sutherland, della charity Samaritans. «Eventi come il lutto, una storia di abusi, autolesionismo, malattie mentali e pressioni accademiche sono un fattore di rischio comune tra i giovani che si tolgono la vita». Interventi precoci, individuazione della popolazione a rischio, un portavoce del dipartimento della sanità e dell’assistenza sociale ha assicurato che «la prevenzione del suicidio rimane una priorità per questo governo. Ecco perché stiamo investendo cifre record per trasformare i servizi di salute mentale così che più persone abbiano accesso alle cure quando ne hanno più bisogno». E ancora: «Stiamo spendendo 300 milioni di sterline in più per fornire maggiore assistenza alla salute mentale nelle scuole e ci siamo impegnati per un ulteriore investimento di 1,4 miliardi di sterline per sostenere una significativa trasformazione dei servizi per bambini e giovani».

I PROBLEMI DELLE MATRICOLE. Ma allora perché questa corsa allo sportello, questa adorazione del totem della “salute mentale” (che non è sinonimo di sanità mentale), questo colonialismo diagnostico a cui rivolgere attenzione e risorse, fa a cazzotti con i numeri? 187 ragazzini che si suicidano in un anno. Secondo i dati del think thank Ippr ripresi lo scorso anno dal Guardian 134 studenti universitari si sono tolti la vita nel 2015 a causa delle pressioni finanziarie e accademiche e il numero di studenti «che hanno rivelato di avere avuto problemi di salute mentale al primo anno» è 15.395 (quintuplicato in un decennio). La percentuale di studenti che utilizzano, o che sono in attesa di usare, servizi di consulenza è arrivata fino al 26 per cento in alcune università. Mark Salter, portavoce del Royal College of Psychiatrists, ha dunque commentato: «Il governo deve fare molto di più. Il suicidio è prevenibile. Ma senza risorse adeguate e finanziamenti, non ridurremo il suicidio in Inghilterra».
CURATI O NUOVI MALATI? Ci si chiede, in un paese che sforna studi in continuazione sulla prevenzione, che afferma che più di tre quarti dei lavoratori britannici soffre in silenzio di “problemi di salute mentale”, il 62 per cento dei quali a causa del lavoro, e che invita i suoi manager a un “approccio preventivo”, un paese dove fioriscono le campagne di sensibilizzazione come “What’s your head at” promossa dai life coach insieme a Mental Health First Aid England, che autorizza il dipendente a prendere dei giorni di malattia per stress, malinconia, per ansia o depressione. Ci si chiede se tutto questo medicalizzare, cioè estendere la giurisdizione dello specialista, della medicina, a una serie di ambiti, dallo studio al lavoro, non trasformi un soggetto in difficoltà in un malato dipendente dall’organizzazione medica.
L’OPPIO DEGLI AMERICANI. Lo abbiamo già visto in America, dove l’abuso di oppioidi, prescritti da medici e venduti in farmacia o sul web, è più letale delle armi da fuoco e le morti per overdose da antidepressivi e antidolorifici sono aumentate di sei volte, superando quelle dovute a ogni altra droga: secondo le stime più ottimistiche, nel 2018 gli oppioidi uccideranno 52 mila americani, mezzo milione nei prossimi dieci anni. Non sono droghe da prestazione, ma farmaci con cui si è cercato sollievo, scorciatoie per mettere fine al dolore fisico, psicologico, emotivo, perfino esistenziale. Qui l’aumento del tasso di americani che, ricevuta una diagnosi di depressione o ansia, sono stati trattati con antidepressivi (circa 15,5 milioni per almeno cinque anni e 25 milioni di adulti per almeno due anni) è coinciso con l’aumento del tasso di suicidio, decima causa di morte negli Stati Uniti in aumento costante del 25 per cento dal 1999 ad oggi.
I FIGLI DEL BENESSERE ANESTETIZZATO. Qualcosa cioè sembra sfuggire di mano. Soprattutto quando si parla di ragazzi, nati e cresciuti nel benessere anestetizzato in cui sono stati immersi da una società ossessionata dall’annientamento di tutto ciò che è dolore, ansia, paura, violenza, sentimento negativo. Tolto il dolore, medicalizzato lo spirito, ridotta l’esperienza umana a una corsa alla tutela da pressioni di ogni genere, il soffitto si è abbassato e forse la cameretta da adolescente è diventata davvero soffocante.
Foto Shutterstock teen sucide

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