Articolo tratto da “Lo stato della giustizia”, servizio di copertina del numero di Tempi di luglio 2019. Per leggere gli altri contenuti del servizio, clicca qui.
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Il tema del funzionamento della giustizia, il suo rapporto con i poteri costituzionali e democratici, e più specificatamente il rapporto politica-magistratura, ha radici profonde. È la storia di un Ordine che si è fatto Potere e che, tra i poteri, è divenuto preminente rispetto agli altri.
La “questione giustizia” non è quindi un tema di questi giorni. Non nasce e non morirà intorno alla vicenda Palamara su cui, francamente, si addensano molte ombre e tante ipocrisie. Ancora una volta, infatti, basiamo il dibattito sulle solite fumisterie tese a coprire la reale natura del problema, buone a riempiere le cronache dei giornali, ad emettere condanne preventive e giocare allo sceriffo “buono” contro quello “cattivo”, ma del tutto incapaci nell’affrontare il problema nella sua ampiezza e complessità.
Forse, l’unica vera novità di questi giorni è data dall’uso della giustizia come “strumento” per regolare le partite e i conflitti intestini all’ordine giudiziario. Ma in fondo, c’è davvero da sorprendersi? Se l’arma giudiziaria si è rivelata utile e funzionale per condizionare e influenzare le lotte politiche, economiche e finanziarie, di cui il triennio ’92-’94 è stato esempio e prova, potevamo pensare che questa risparmiasse lo scontro per la conquista del “potere” in grado di dominare tutti gli altri, ossia quello giudiziario?
Non era possibile. E, infatti, così non è stato.
La verità è che per dolo, per insipienza o per incapacità la politica ancora una volta rischia di rimanere schiava della retorica moralistica, delle soluzioni pseudo giacobine e falsamente rivoluzionarie, piuttosto che affrontare, con tanto di necessaria critica e autocritica, un nodo che con il passare del tempo è sempre più difficile dipanare.
Il quarto di secolo che abbiamo alle nostre spalle è la testimonianza viva di quanto la “questione giustizia” rappresenti il convitato di pietra, a tratti il fattore determinate, dell’evolversi della vita politica e istituzionale di questo paese. Stupisce pertanto che qualcuno possa far finta di accorgersi solo ora dell’intreccio perverso tra magistratura e politica. Il “Fattore G”, però, non è certo la derivante della permeabilità del sistema giudiziario da parte della politica; nonostante la propaganda del corporativismo togato, il problema è esattamente l’opposto.
Se non comprendiamo questo, se accettiamo lo stravolgimento della realtà dei fatti invertendo i termini della questione, il cortocircuito tra politica e magistratura continuerà a risentire e a riverberarsi tanto nella pratica legislativa quanto nella cultura, non solo giuridica, nostrana. Non è un caso che la natura dei provvedimenti varati in questi anni risenta sempre più del clima barbaro, da ordalia giustizialista, che si respira ormai da troppo tempo e che ha infettato i gangli del vivere civile.
La ragione, la cultura del diritto, non sono più argini in grado di mettere un freno a una deriva inquietante, radicata in una visione autoritaria e illiberale che pregiudica le libertà individuali e imprime alla giustizia penale una visione da “torquemada”, ponendo in tal modo un problema di ordine democratico.
L’unico strumento che abbiamo
Infatti, la “questione giustizia” è la questione del primato della politica, con la stessa che ha abdicato al suo ruolo di forza guida e di rappresentanza. È un tema che trascende i confini nazionali e interessa larga parte delle democrazie occidentali. Ma in Italia, la storia della giustizia, ha caratteristiche peculiari. È la storia di uno scontro di potere fra una parte della magistratura che concepisce il proprio ruolo in termini di egemonia politica, culturale e morale e quelle forze che hanno inteso difendere il primato della Politica, quale unico strumento nella disponibilità del cittadino, sottoposto alla volontà e controllo di questo.
Ecco perché il “Fattore G” continua innanzitutto ad essere una questione di libertà e di sovranità democratica.
Solo se la politica sarà in grado di trovare la forza, il coraggio, la visione e la lungimiranza per rigenerare se stessa potrà venire a capo della “questione giustizia”, poiché una riforma organica dell’ordinamento giudiziario non potrà mai vedere luce con una politica debole, permeabile e agli ordini di poteri terzi. Una riforma che può essere concepita e realizzata solo all’interno di un disegno di riordino complessivo dello Stato, che ponga fine a uno squilibrio sempre più evidente tra i vari poteri, che intervenga e vada ben oltre le modalità di elezioni dei membri del Csm “minacciato” in questi giorni.
È quindi solo con una profonda riforma, di natura inevitabilmente costituzionale, che potremo dare vita a una nuova stagione dove venga garantita l’indipendenza della magistratura dalla politica, ma in cui anche l’autonomia della politica dalle posizioni e dagli interessi della magistratura venga ripristinata quale fattore imprescindibile per una sana vita democratica.
Stefania Craxi, autrice di questo articolo, è senatrice di Forza Italia e presidente onorario della fondazione intitolata a suo padre Bettino
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