

Pubblichiamo un commento alla sentenza della Corte costituzionale sul suicidio assistito scritto per Tempi da Marco Maltoni, tra i più importanti medici palliativisti italiani, coordinatore della Rete locale di Cure palliative presso l’Ausl Romagna.
Un’altra presa di posizione chiara sulla decisione della Consulta dal punto di vista dei professionisti della sanità è il comunicato dell’Associazione Medicina e Persona che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi.
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La sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, a integrazione della ordinanza 207/2018, identifica i quattro requisiti specifici che possono giustificare un’assistenza di terzi nel porre fine alla vita di una persona malata:
Vi è stato un riconoscimento diffuso sul fatto che la Corte abbia cercato di delineare la sentenza “su misura” per il caso specifico di Dj Fabo, e quindi, almeno per il momento, vi sia stato un tentativo di limitare la casistica oggetto del provvedimento. Inoltre, per la Corte, l’aiuto al suicidio rimane comunque un reato, anche se non perseguibile penalmente in quelle precise condizioni di malattia.
Dal punto di vista della letteratura medica, però, alcuni dati depongono per il fatto che la legalizzazione dell’eutanasia rechi con sé tre conseguenze pressoché inevitabili.
La prima: lo scivolamento verso condizioni di liceità più ampie, col passare del tempo, una volta superata l’interdizione totale che prima vigeva sul tema (tale processo è definito la “china scivolosa” o la “breccia nella diga”). Una serie di dati evidenziano come nei paesi in cui eutanasia e suicidio assistito sono legalizzati, si assiste a un superamento delle salvaguardie inizialmente delineate per mantenere limitate le procedure, e a un conseguente aumento delle indicazioni cliniche.
I report olandesi e belgi depongono per un incremento variabile negli anni da un 250 per cento a un 1.000 per cento, con allargamento delle tipologie: da pazienti oncologici a pazienti non oncologici, da situazioni di terminalità a situazioni di cronicità e disabilità, da sofferenze fisiche a sofferenze psicologiche e cognitive, frequenti in età avanzata, con le problematiche proprie tipiche di tali fasce di età (depressione, demenza). Inoltre, si è assistito in Olanda alla proliferazione di “cliniche del fine-vita”, ovvero di strutture ove l’unica prestazione effettuata è quella eutanasica o di suicidio assistito.
Altri numeri esprimono, in quei paesi ove eutanasia e suicidio assistito sono legalizzati, anche una progressiva maggiore diffusione dei cosiddetti “suicidi razionali”, ossia dei suicidi di persone in benessere fisico, motivati da una scelta di tipo esistenziale, non innestati su una situazione di particolare disabilità o malattia. Questo aumento, da prima della legislazione a dopo, è stato riportato dell’ordine del 6 per cento per tutte le età, e del 14 per cento per gli ultrasessantacinquenni.
La dinamica che si viene a creare nei paesi in cui i grandi problemi di disabilità sono affrontati con suicidio assistito o eutanasia è stata definita da alcuni come un processo di “contagio suicidiario”, come se il suicidio progressivamente divenisse una ipotesi positiva di affronto della sofferenza, fisica e/o psico-esistenziale. A conferma, vi è l’indicazione che in Olanda è in discussione al Parlamento un disegno di legge che prevede la possibilità di “eutanasia per vita completata”, ove gli unici due requisiti richiesti sono l’età uguale o maggiore di 75 anni e il giudizio di avere completato la propria esistenza, ed avere quindi una volontà suicidiaria.
Il professor Theo Boer, per 10 anni esperto della commissione ministeriale olandese di validazione delle richieste eutanasiche, ha registrato il passaggio concettuale, nella società, dal considerare l’eutanasia e il suicidio assistito da «soluzioni da ultima spiaggia» a «una soluzione tra le altre» fino al «modo automatico di giungere a morte» (il professore scrive: «the default way to die»). Senza contare che errori nella diagnosi e nella prognosi, pur se meno frequenti che in passato, sono tuttora possibili e fanno parte della intrinseca probabilistica incertezza della medicina.
Una ulteriore estrema deriva fortunatamente contenuta, ma in Belgio ben identificabile, è infine quella della diffusione delle eutanasie non-volontarie, cioè non richieste dalla persona sofferente, ma effettuate dai curanti per il “miglior interesse del paziente”.
Ciò si lega alla seconda conseguenza della legalizzazione del suicidio assistito, di taglio psicologico. In presenza di una possibilità cogente di eutanasia o suicidio assitito, emerge per il “povero di vita” quasi un obbligo a prendere in seria considerazione tale opzione («devo togliere il disturbo?») . La percezione della società di disvalore della persona fragile viene ad avere una ricaduta diretta anche sulle persone stesse.
Infatti, se una certa parte della società, e anche dei medici curanti, è realmente convinta, in buona fede, che una vita in determinate condizioni sia talmente di disvalore che «sarebbe il miglior interesse del paziente» quello di non esserci, questa convinzione viene trasmessa e fa parte di quel processo di “nudging” (“spinta sottile”, “colpetto di gomito”) verso la richiesta eutanasica. Mantenendo la buona fede, i medici fanno buon uso del loro “potere”, sproporzionato rispetto alla debolezza di un anziano fragile.
Studi evidenziano come il fenomeno del nudging sia rilevante nell’indurre il passaggio da un “diritto a farsi da parte” a quello di una tale autosvalorizzazione della persona sofferente da recare con sé un incremento delle richieste, fino a fare sì che tra le morti di quei paesi una percentuale epidemiologicamente rilevante di morti, fino al 4-6 per cento, sia dovuta a eutanasia o suicidio assistito per il cosiddetto “obbligo volontario a farsi da parte”. Le 18 eutanasie quotidiane in Olanda, 4 per cento delle morti su una popolazione di circa 17.200.000 abitanti, calcolando il corrispettivo sulla nostra popolazione ammonterebbero a circa 23.050 eutanasie annue in Italia.
Autori, in particolare di estrazione psicologica e psichiatrica, si chiedono se una condizione di grave sofferenza che si accompagni a depressione e demoralizzazione (una sorta di oppressione interna delle persone con grave disabilità) possano realmente consentire una decisione libera e cognitivamente “competente”, cioè lucida e asettica.
In America, poi, se le percentuali di sopravvivenza per una determinata patologia sono troppo limitate a distanza di tempo (la cosiddetta legge del 5 per cento: meno del 5 per cento di possibilità di sopravvivenza a 5 anni, come purtroppo è per la maggior parte delle persone portatrici di neoplasie solide in fase metastatica), alcuni Stati non erogano gratuitamente le cure salvavita antitumorali, mentre invece garantiscono eutanasia o suicidio assistito gratuiti, orientando, come ben si capisce, la scelta dell’ammalato. Ad un tempo viene infatti comunicata una asettica non speranza nelle cure, e contemporaneamente viene fornita la possibilità di uscita. In quegli stati americani, la ricerca di un medico aderente al programma di eutanasia o suicidio assistito è stata descritta come “doctor shopping”. Dall’insieme di tutti questi aspetti, la cinta muraria di salvaguardie, secondo le maggiori associazioni di disabili americani, viene presto sgretolata e distrutta.
La terza conseguenza è rappresentata dalla trasformazione della professione medica. Se il suicidio non è solo “assistito”, ma è “medicalmente assistito”, ne consegue che la figura che deve preparare i farmaci per consentire l’esecuzione del suicidio farmacologicamente indotto deve essere un medico, e così pure nel caso di una eutanasia medicalmente assistita.
Secondo alcuni la partecipazione a queste manovre fa parte del ruolo compassionevole del medico. Secondo molti altri, la partecipazione del medico a suicidio assistito o eutanasia contraddice alla radice il ruolo professionale del medico e pregiudica la fiducia nel medico da parte della persona che versa in fragilità, minando la solidarietà con coloro la cui salute è ridotta, che rende possibile la pratica della medicina.
Alcuni autori anno addirittura segnalato che la legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito e la partecipazione del medico a tali procedure patrocinano ingiustamente i desideri di coloro che le richiedono, a fronte dei bisogni di un numero infinitamente maggiore di persone che affrontano le condizioni di dipendenza e fragilità, e che potrebbero essere indotti e trascinati verso una soluzione che non desiderano e che, in condizioni di assistenza sistematica e calorosa, rifiuterebbero. In più della metà dei richiedenti eutanasia, per vari motivi non messi in condizione di procedere, si è visto modificare in breve tempo la inclinazione eutanasica.
Ci si chiede anche se un “diritto a morire” implichi necessariamente il “diritto ad avere un medico che provochi la morte”. Nella sentenza della Consulta, il ruolo del medico è previsto nel verificare le condizioni cliniche permissive e nel monitorare i passaggi formali, mentre rimane un margine di dubbio sulla effettiva partecipazione al processo (comunque individuabile caso per caso e regolata dalla obiezione di coscienza). In altri paesi non vi è un comportamneto uniforme rispetto alla necessità della presenza medica nell’effettuare il processo.
Associazioni di disabili americani affermano che
«i pericoli del suicidio assistito non possono essere sradicati e che l’eutanasia legalizzata non può mai essere considerata “sicura”. Ecco perché non raccomandiamo di approvare paletti più stringenti, non c’è ragione di credere che leggi migliori possano prevenire gli abusi. L’unica strada sarebbe dunque quella di abolire il suicidio assistito o perlomeno approvare leggi che garantiscano l’accesso reale alle cure palliative».
Ma se perfino le cure palliative, come quelle belghe, nella loro interpretazione di “cure palliative integrali” inseriscono il suicidio assistito tra le proprie possibili prestazioni, in quale porto sicuro una persona fragile potrà trovare la certezza di non incontrare approcci eutanasici?
Alcuni palliativisti italiani suggeriscono il ritorno e la sistematizzazione delle “cure palliative originali”, quelle ideate da Cicely Saunders, che rispetto alla tematica della eutanasia in una lettera del 1993, ha scritto:
«Dovesse passare una legge che permettesse di portare attivamente fine alla vita su richiesta del paziente, molti dei “dipendenti” sentirebbero di essere un peso per le loro famiglie e per la società e si sentirebbero in dovere di chiedere l’eutanasia… ne risulterebbe come grave conseguenza una maggiore pressione sui pazienti vulnerabili per spingerli a questa decisione, privandoli così della loro libertà».
Foto Ansa
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