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Sono diventato grande con Tempi. Da quando, diciannovenne e con alle spalle una tripla bocciatura, fui indirizzato da un certo Luigi Amicone che, così mi raccontavano comuni amici, aveva in testa l’idea di fondare un giornale. «Ci vediamo oggi a Caravaggio», mi rispose quando chiesi appuntamento. Una giornata con lui al santuario fu il mio colloquio di lavoro.
Fui scaraventato dentro un’avventura entusiasmante. Il nostro primo ufficio fu generosamente messo a disposizione da Stefano Morri in una zona “in” di Milano, via Meravigli 19. In redazione c’erano Maurizio Zottarelli, Giuseppe Costa e io con compiti da tuttofare, dalle pulizie al battere sulla tastiera i pezzi che arrivavano via fax (ricordo bene quelli da Hammamet che portavano la firma “Bettino Craxi”). Amicone, che aveva un altro lavoro, passava ogni tanto in redazione. Perché Tempi, i primi anni, era un settimanale che si faceva in un giorno, o meglio in una notte. Alle 18, infatti, quel piccolo ufficio si trasformava in un ...
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