

Dopo i trionfi presidenziali nel 2021 del filo-comunista Gabriel Boric in Cile, della filo-chavista Xiomara Castro in Honduras e del filo-castrista Pedro Castillo in Perú, oltre alla scontata riconferma nell’elezione farsa del dittatore sandinista Daniel Ortega in Nicaragua, quale 2022 attende il Sudamerica? Di sicuro il prossimo anno potrebbero diventare “rosse” anche la Colombia e il Brasile, dove l’ex guerrigliero marxista, Gustavo Petro e l’ex carcerato (per corruzione) Lula sono in testa nei sondaggi nei rispettivi paesi, lasciando così “a destra” solo l’Ecuador, il Paraguay e l’Uruguay in Sudamerica.
Come spiegare la “valanga rossa” che sta travolgendo su questa parte di mondo? Le cause sono molteplici, alcune incidentali, come ad esempio la pandemia, che ha fatto dipendere una parte crescente della popolazione delle classi medie latinoamericane impoverite dagli aiuti statali, effettivi o promessi che siano. Il maggior intervenzionismo dello stato è tradizionalmente un cavallo di battaglia della sinistra, non solo quella socialdemocratica europea ma ancor più di quella castro-chavista latinoamericana. Inoltre, con la pandemia si è registrato un fenomeno comune a livello globale, ovvero che a parte i paesi come l’Italia dove ci sono governi di “unità nazionale” (con destra, sinistra e populismi di vario colore, il riferimento è ai 5 Stelle, tutti “in sella”) e poco cambia in prospettiva elettorale, ovunque altrove si è votato negli ultimi due anni chi era al potere è stato punito alle urne.
È il caso dell’Ecuador, dove essendoci un governo di centrosinistra, ha vinto lo scorso anno, eccezione nel panorama latinoamericano, il centrodestra di Guillerme Lasso. Ma è soprattutto il caso di Cile, Honduras e Perù, dove erano alla presidenza coalizioni di centro o di centrodestra e ha trionfato la sinistra. Anche per questo, se lo schema dovesse ripetersi (e nulla lascia pensare che così non sarà), in Colombia e Brasile, dove governano attualmente il centrodestra e la destra, la sinistra più o meno estrema è la grande favorita, come del resto confermano i sondaggi. Insomma, una prima causa, contingente, della “valanga rossa” è proprio il “desiderio di cambiamento” che gli elettori hanno dimostrato di volere in era di Covid-19, in America Latina come nel resto del mondo, basti pensare al caso degli Stati Uniti ed alla staffetta Trump-Biden.
Tutte le altre cause della debacle della destra, tuttavia, sono strutturali ed esulano dalle variabili pandemiche. Non c’entra però che il Covid-19 abbia moltiplicato poveri e disoccupati, spostando – come sostiene qualcuno – tanti voti verso la sinistra, tradizionalmente più votata da chi appartiene a queste due categorie. La dimostrazione lampante è il voto delle legislative dello scorso novembre a Buenos Aires, in Argentina, dove la nuova stella del liberalismo del paese del tango, il vulcanico economista Javier Milei, ha stravinto proprio nei quartieri più poveri della capitale come Villa Lugano, Villa Riachuelo e Soldati, tre “favelas” per dirla alla brasiliana.
Il risveglio della sinistra, soprattutto quella estrema che s’ispira ai modelli cubani e venezuelani, e che sovente abbina al braccio politico dei partiti anche quello armato, nasce anche dalle riunioni che i leader sudamericani di questo variegato schieramento politico da tre anni si incontrano nel cosiddetto Gruppo di Puebla, in Messico, concordando linee e direttive comuni per tutti i loro membri. Il Gruppo di Puebla è di fatto il braccio politico più aggiornato del Foro di San Paolo, il “club” di movimenti politici e di gruppi armati fondato nel 1990, dopo il crollo del Muro di Berlino, da Fidel Castro e dall’oggi redivivo Lula, la cui fedina penale è tornata intonsa grazie alla Corte Suprema “amica”. A queste latitudini, invece, la destra non ha nessunissimo coordinamento politico internazionale di rilievo e, soprattutto, agisce in ordine sparso.
La seconda causa strutturale della “valanga rossa” è rappresentato dalla cosiddetta “battaglia culturale”, che nel corso dei decenni la sinistra ha portato avanti e stravinto e grazie alla quale oggi controlla gran parte delle università e dei media con la propria storica ideologia rinnovata da nuovi innesti del globalismo: il femminismo di nuova generazione, l’indigenismo, il regionalismo (e quando di convenienza l’indipendentismo, come ad esempio in Catalogna), l’ambientalismo “gretino” e il la battaglia per i diritti LGTBQI.
Su questi –ismi, che sono poi in realtà i fronti culturali che la sinistra presidia quasi militarmente, la destra è assente e, quando raggiunge il potere, si occupa di fatto solo di economia, cercando di mettere a posto i conti e di appoggiare a parole il libero mercato, senza però mai intaccare il gigantismo statale.
C’è poi da considerare il peso dei media internazionali, più allineati al pensiero di sinistra: basti pensare al trionfo di Boric in Cile, con la statunitense Associated Press che ha sganciato a pochi giorni dal ballottaggio la “bomba” sull’iscrizione al partito nazionalsocialista, nel 1942, del padre del candidato avversario, José Antonio Kast.
Dati alla mano, in America latina oggi il 90 per cento dei giornali è inquadrabile come “liberal” ma con una radicalizzazione ben più marcata che negli Stati Uniti e financo dell’Italia, cosa che ovviamente aiuta molto il successo mediatico della valanga rossa in questa parte di mondo. Per rendersene conto basta guardare la recente copertina della rivista brasiliana Istoé, con il presidente Jair Messias Bolsonaro ritratto come Adolf Hitler.
Se il ruolo dei media continuerà a essere così importante, nel 2022 è molto probabile che la sinistra vada al potere anche in Colombia, fatto inedito questo per il principale alleato degli Stati Uniti nella regione e, ad ottobre in Brasile, dove avremo un “Lula reloaded”, vicino a Cuba e al Venezuela come mai in precedenza.
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