«Spero che la tregua con Hezbollah duri, voglio tornare a casa»
Aliza mostra le foto della sua casa a Kiryat Shmona, nel Nord di Israele in una bella valle alle pendici del Monte Hermon. La casa è stata colpita e semidistrutta da un missile lanciato da Hezbollah, accanto a lei la sua amica Chana. Entrambe hanno 60 anni, figli nell’esercito al fronte, ma di questo non possono dire di più. Sono fuggite 14 mesi fa, quando i razzi di Hezbollah sono diventati una pioggia nera e ininterrotta. «Erano più di cento al giorno – dicono – e spesso molti di più. Lanciati da una distanza troppo breve per riuscire a scappare nei rifugi. Le sirene di allarme suonavano dieci-quindici secondi prima e non c’era il tempo di correre al riparo. Ci si buttava a terra, riparando la testa e pregando. A volte le sirene non suonavano affatto, quando le granate venivano sparate a vista con i lanciarazzi. È questione di secondi».
Chana è stata ferita ad una gamba, zoppica. Con l’amica sono fuggite portando con sé il poco che potevano, convinte di poter rientrare presto e che, come altre volte in passato, l’emergenza sarebbe finita in pochi giorni. Ormai dura da 14 mesi. Le incontro in un albergo di Gerusalemme che ospita i rifugiati di Kiryat Shmona. Vicino a loro c’è David Yakoovi, un uomo di 70 anni, un parente che vive poco lontano, anche lui ha lasciato la sua casa al Nord.
«La casa siamo noi»
Kiryat Shmona, in ebraico “Città degli otto”, porta nel nome e nella storia le cicatrici del conflitto. Gli “otto” sono gli ebrei uccisi nel 1920 in uno scontro con gli arabi. Israele non esisteva ancora, ma la guerra sì. Negli anni Cinquanta Kiryat Shmona era un campo di accoglienza provvisorio per gli ebrei che facevano aliyah e volevano vivere in Israele. Aliyah è il ritorno alla terra dei padri e la parola “ritorno” scandisce tutta la nostra conversazione. Ritorno al Nord, a Kiryat Shmona che ora è una città dove sono sorte importanti industrie di alta tecnologia. Una città giovanissima: un terzo degli abitanti ha meno di 19 anni, e il 70 per cento meno di 40. Ma è anche una delle città in prima linea nel conflitto. Dove ogni giorno, da trent’anni, arrivano i razzi sparati dalle milizie sciite di Hezbollah.
«Ci eravamo in qualche modo abituati ai razzi», dice Aliza. «I danni, fino a un anno fa, erano in qualche modo sopportabili. Siamo cresciuti così». David annuisce: «Per molte generazioni è stato così e siamo diventati più forti. Ma oggi è più difficile, è molto dura, cresci i figli e i figli dei tuoi figli sperando che possano vivere in pace e ti ritrovi in questa situazione. E il problema non è il Libano, lo sappiamo bene, è l’Iran, l’accordo per il cessare il fuoco è un accordo con il Libano, ma i libanesi non decidono. Decide l’Iran e tutto può cambiare. Ma io a casa ci torno. E spero che la tregua duri».
«Sì, certo, si torna a casa appena possibile e spero che sarà presto – aggiunge Aliza -. Guarda le foto, io le guardo ogni giorno. Hanno colpito le mura e il tetto, ma questi si ricostruiscono, la casa siamo noi. E noi siamo vivi, sia ringraziato Dio. Vicino a casa ci sono villaggi drusi e beduini. Con loro abbiamo un ottimo rapporto. In molti villaggi i bambini ebrei giocano e vanno a scuola con gli arabi. I missili di Hezbollah hanno colpito anche tanti bambini drusi. Perché tanto odio? Che senso ha vivere nell’odio quando si può vivere in pace?». Ma poi… «Poi tutto è precipitato dopo il 7 ottobre; i ragazzi sono partiti per combattere, siamo dovute fuggire, pochi sono rimasti a garantire la sicurezza».
Una tregua fragile
Ora c’è una tregua che durerà sessanta giorni affinché Israele si ritiri e Hezbollah si riposizioni più a Nord, abbastanza lontano da non essere più un pericolo immediato. E a garantire la tregua dovrebbe essere il fragilissimo esercito libanese, sia pure aiutato da garanti internazionali: Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Francia, Paesi arabi e l’Unifil, la forza Onu.
I sindaci di alcune città del Nord non credono al cessate il fuoco, dicono che Hezbollah tornerà a colpire, che l’esercito libanese non è in grado di garantire la sicurezza, che il milione di libanesi sfollati che vogliono tornare al Sud sono una minaccia alla sicurezza; temono un nuovo 7 ottobre. «Ma l’accordo è già qualcosa – dicono i nostri interlocutori e si accalorano un poco -. Bisogna essere prudenti, ma non abbandonare la speranza. Ci sono molte cose da chiarire. Noi speriamo di tornare. Ci manca la nostra casa: viviamo in un albergo, passiamo le giornate parlando tra noi. Pensiamo ai nostri cari, i pochi rimasti al Nord, ai nostri figli e nipoti che combattono. E pensiamo di avere il diritto di vivere in pace e sicurezza, che il terrorismo non debba vincere, che non possiamo arrenderci alla paura. Ci sono sessanta giorni per provare a trovare una strada di pace o almeno una tregua più solida. Ma la pace vera non si fa solo con la politica o le armi. Quello è il compito di ognuno. E nessuno può disertarlo. Io spero di ritornare a casa».
Vittime innocenti
Aliza mostra ancora una volta le foto sullo smartphone e indica i resti dell’ordigno che ha colpito il tetto. «Ecco, questo hanno fatto. Hanno colpito scuole, asili, infrastrutture. Ci vorrà tempo per riparare i danni e permettere alla gente di tornare». Chana sorride: «Vivo in un albergo da un anno e mezzo, ci hanno aiutato molto. La gente è gentile, ogni tre settimane vado a vedere i miei figli che vivono sfollati in un’altra parte di Israele non proprio vicina. Non è facile, sai. Non sono come e quando tornerò a una vita normale. So che non voglio abbandonare per sempre Kiryat Shmona, voglio tornare, voglio che i miei figli ritornino. Non posso dire di essere soddisfatta dell’accordo, non mi sento molto sicura. Sono già stata colpita a una gamba mentre correvo verso il rifugio. Ora sto meglio. Non posso lamentarmi. Molti hanno sofferto di peggio, molto peggio».
Si commuove un poco ricordando i tanti che sono morti, i soldati riservisti uccisi sul terreno. Ogni famiglia qui piange qualcuno che non ritornerà. «Lo sappiamo bene, ci sono tanti morti anche fra i libanesi e soprattutto tra i palestinesi. Tanti sono miliziani, responsabili del massacro del 7 ottobre. Ma anche questo sappiamo: tra le vittime ci sono tanti bambini e donne innocenti, colpevoli solo di abitare vicino alle basi nascoste di Hamas e di Hezbollah, ai depositi di munizioni, alle banche dove i terroristi hanno nascosto il denaro… E quei civili sono diventati scudi umani, sacrificati alla logica che vuole solo la morte. E ci sono gli ostaggi. Hanno fatto un accordo con Hezbollah… ma da 14 mesi altri israeliani vivono nell’orrore dei tunnel di Hamas, come possiamo dimenticarli?». E mentre parliamo del Nord il pensiero va a Sud, a Gaza.
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