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Riforma della Costituzione: un premier assoluto e la sepoltura della sussidiarietà

Intervista al costituzionalista Antonini sulla Boschi-Renzi che riconsegna a Roma la supremazia su qualunque materia di qualunque regione. Concentrando il potere nelle mani di una minoranza

Pietro Piccinini
26/04/2016 - 3:00
Politica
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Matteo Renzi ha deciso di giocarsi tutto, sulla legge che porta il nome del suo ministro “preferito”, Maria Elena Boschi. È dalla conferenza stampa di fine anno che il premier giura: se non passerà al referendum, avrò fallito e «ne trarrò le conseguenze». La riforma costituzionale Boschi-Renzi è stata infatti approvata dal parlamento ma senza la maggioranza dei due terzi dei membri di ciascuna camera, perciò toccherà agli elettori la decisione definitiva se prendere o lasciare. A ottobre, probabilmente domenica 16 (la data più accreditata attualmente), l’Italia sarà chiamata a depositare nelle urne il proprio parere su una serie di modifiche non indifferenti alla Costituzione “più bella del mondo”, ma per volontà dello stesso leader del Pd, la scelta dei cittadini dovrà essere appesantita da un doppio dilemma, perché per Renzi «il “no” al referendum sulle riforme è inspiegabile con argomenti di merito. Si spiega solo con l’odio verso di me».

L’ultima volta che il paese si è trovato davanti a un referendum costituzionale, giugno 2006, il fautore della riforma, poi affondata dal 61,3 per cento di voti contrari, era il centrodestra di Berlusconi e Bossi. All’epoca il professore Luca Antonini, parlando con Tempi in vista della consultazione, non prese una posizione, pur avendo contribuito con i suoi studi alle modifiche in palio. Da una parte non si riconosceva nell’opposizione della sinistra che ostentava una specie di «idolatria» della Carta (la-costituzione-non-si-tocca), strumentale in realtà a una guerra tutta politica contro il Cavaliere; dall’altra criticava il centrodestra che aveva preteso di riscrivere una parte delle regole del gioco democratico senza ricercare il consenso degli avversari, “a colpi di maggioranza”, come si dice in politichese. Disse Antonini a questo giornale: assurdo ridurci a ingoiare o rigettare in blocco per via referendaria un pacchetto di riforme così importanti e complesse.

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Per alcuni versi oggi sembra di rivedere lo scontro di quei mesi, solo a parti invertite. Come ribaltati rispetto al 2006 sono alcuni dei temi cruciali inclusi nella legge Boschi (vedi il federalismo, per esempio: allora si parlava di “devolution”, adesso si prospetta la ricentralizzazione di molte competenze dalle regioni a Roma). Proprio per questo Antonini è una delle persone a cui bisogna per forza chiedere un giudizio sulla riforma: oltre a essere professore di Diritto costituzionale all’Università di Padova, ha guidato dalla nascita la Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff), finché nel novembre scorso ha scritto al ministro Padoan per dimettersi dall’incarico, visto che il governo Renzi ha di fatto «esautorato» l’organismo seppellendone gli sforzi. Appunto.

Professor Antonini, è vero, come dicono i contrari, che la riforma elimina la politica sostituendola con il decisionismo?
Prima una precisazione: sicuramente il superamento del bicameralismo paritario perfetto era una necessità. Fu introdotto nella Costituzione nel 1948, e a quei tempi c’erano buone ragioni per dare centralità al parlamento in modo da evitare la concentrazione del potere nel governo. Era naturale, si usciva dal periodo fascista e i costituenti lo fecero in modo molto deciso: per questo il governo dipende dalla fiducia di Camera e Senato, che hanno addirittura due leggi elettorali diverse. Questo meccanismo però aveva una ratio finché valeva anche la regola secondo cui “le istituzioni rappresentano, i partiti decidono”, finché c’è stato cioè un sistema di partiti molto forte, in virtù del quale, durante la Prima Repubblica, anche a fronte della instabilità dei governi di fatto non veniva mai meno una continuità nella linea politica. Con la Seconda Repubblica il nostro bicameralismo è diventato un problema dirompente, perché all’instabilità dei governi si è aggiunta la mancanza di continuità politica. Quindi andava riformato, come hanno evidenziato anche le “commissioni dei saggi” di Napolitano e di Letta. Il problema qual è? Che in questa riforma il superamento è realizzato malissimo. Il Senato è un pasticcio, è quasi un ente inutile.

Ma la parola d’ordine del governo non era proprio “abolizione del Senato”?
No, l’intento era di superare il bicameralismo paritario perfetto creando un sistema conforme al decentramento, quindi con un Senato rappresentativo delle regioni. Invece il nuovo Senato non è il Bundesrat tedesco e nemmeno il Senato americano, è privo di potere sostanziale, composto da consiglieri regionali e sindaci in modo pasticciato. In più sarà espressione di una maggioranza politica diversa da quella della Camera, la quale sarà eletta con l’Italicum. Ed è questo il vero connubio esplosivo: quello tra la riforma Boschi e l’Italicum. L’Italicum è una brutta copia del Porcellum dichiarato incostituzionale, prevede ancora sostanzialmente le liste bloccate (perciò di fatto anche questo sarà “un parlamento di nominati”) e assegna un enorme premio di maggioranza al partito che al ballottaggio raggiunge il più alto numero di voti. Quindi un partito con il 25-27 per cento dei consensi può diventare maggioranza alla Camera e decidere tutto. Vedo un fortissimo rischio di “premierato assoluto”, che secondo me metterebbe in pericolo la tenuta democratica del sistema. Anche perché questa maggioranza “facile” ottenuta grazie all’Italicum, in virtù della riforma permette di condizionare tutte le nomine che fa il parlamento (Csm, Corte costituzionale, presidente della Repubblica…). Viene meno tutto il meccanismo di “check and balance” previsto dalla Costituzione. Secondo me è grave.

Lei sarà sicuramente sensibile a un’altra obiezione mossa da più parti alla legge Boschi, quella secondo la quale la riforma si muove in direzione esattamente opposta al federalismo.
Sì. La riforma ricentralizza enormemente i poteri, molto di più di quello che era doveroso fare. Era giusto tentare di rimediare agli eccessi della riforma del Titolo V, riportando al centro materie come le grandi reti di trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, che erano state impropriamente decentrate. Qui però si è andati ben oltre. Il problema è l’introduzione della “clausola di supremazia”, una clausola-vampiro che permetterà allo Stato di riassorbire qualsiasi competenza regionale, e questo anche nei confronti delle regioni che funzionano. Se passasse la riforma, dunque, probabilmente anche Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana assisterebbero a una fortissima ricentralizzazione, che però non avrebbe alcuna giustificazione, perché in queste regioni la sanità per esempio è un modello di efficienza a livello internazionale, tra i pochi casi in cui l’Italia si è meritata i primi posti nelle classifiche Ocse. Ricentralizzare in queste regioni significherebbe portare inefficienza e costi. Tra l’altro per poterlo fare basterebbe il voto della maggioranza della Camera, che grazie all’Italicum ci sarebbe sempre, per definizione. Il Senato potrebbe solo esprimere un parere. Così verrebbe meno non solo il pluralismo politico, ma anche il pluralismo istituzionale. È un attacco al principio di sussidiarietà.

Da sinistra Gustavo Zagrebelsy denuncia il tentativo di sostituire la democrazia con «un sistema opposto di oligarchia». Non è un termine eccessivo?
Purtroppo secondo me il termine è molto corretto. È davvero grave l’attacco al principio di sussidiarietà. Questo per altro mentre le regioni a statuto speciale vengono esentate dalla riforma. Regioni come la Sicilia, dove l’autonomia speciale negli ultimi trent’anni è stata la causa del fallimento dello sviluppo dell’isola, non vengono toccate. Sono risparmiate tanto le autonomie speciali gravemente inefficienti quanto quelle che funzionano, grazie però a enormi privilegi finanziari. Questa era l’occasione per riequilibrare il sistema, non è stato fatto.

Però vengono introdotti «costi e fabbisogni standard per promuovere condizioni di efficienza per le funzioni pubbliche dei comuni, delle città metropolitane e delle regioni». Non è soddisfatto di questo?
Quella sul costo standard come criterio di finanziamento delle regioni e dei comuni è stata una mia battaglia personale, condotta in innumerevoli audizioni parlamentari e finalmente vinta, visto che i costi standard ora vengono costituzionalizzati. Peccato che non si applicheranno proprio alla Sicilia, la regione dove sarebbe in assoluto più opportuno farlo.

Almeno la revisione delle norme sui referendum ci restituirà un po’ di democrazia reale?
Sono misure assolutamente limitate. La vera forma della democrazia è la democrazia rappresentativa. Il referendum può essere solo un correttivo in un sistema che funziona, ma questo sistema, così come è congegnato, non funziona.

Però il numero dei senatori si riduce di oltre due terzi (saranno 100 al massimo) e i costi della politica si abbassano. Dice Renzi: «Come si fa a dire no al taglio dei parlamentari?».
È un argomento molto demagogico perché i veri costi della politica non vengono toccati secondo me. Anzi. Il costo della politica più alto è quello dell’inefficienza, e questa riforma produce più inefficienza. L’Italia non è la Francia, che ha una valida amministrazione centrale: riportare il centralismo in Italia, anche nelle regioni che funzionano, produrrà costi molto ma molto più alti dei risparmi ottenuti con il taglio delle poltrone dei senatori. Inefficienze e corruzione si annidano soprattutto a livello centrale, come dimostrano tanti scandali recenti.

Non le piace neanche l’introduzione del principio di responsabilità per gli amministratori regionali e locali, che li esclude dall’esercizio delle funzioni «in caso di accertato stato di dissesto» dei conti?
Sì, questo è positivo. Riprende la nostra riforma del federalismo fiscale. Il problema è che ormai queste regioni sono completamente svuotate. Si introduce il fallimento politico degli amministratori del federalismo ma non c’è più il federalismo. Siccome si ricentralizza così tanto, sarebbe stato meglio introdurlo per gli amministratori statali.

Napolitano difende la riforma perché garantisce stabilità di governo.
Sì, questa riforma garantisce stabilità. Però anche il governo Mussolini è stato stabile, il più stabile della storia italiana.

Addirittura Mussolini?
Voglio solo dire che la stabilità non è un valore assoluto, lo è quando rispetta il sistema democratico. Se è la stabilità di una minoranza a cui viene assegnata la maggioranza di un parlamento di nominati, io qualche problema me lo pongo.

E se cambiasse la legge elettorale, sarebbe così critico lo stesso?
Dipende da quale legge elettorale sarebbe approvata. Per ora il pacchetto è un pacchetto unitario. Per di più, altra scelta assolutamente impropria, Renzi ha fatto diventare il referendum sulla riforma costituzionale un voto su se stesso. Questo è decisamente contrario alla tradizione della democrazia italiana: la scrittura della Costituzione fu un atto fondamentale di altissima dignità istituzionale da parte di tutti i componenti dell’Assemblea costituente, da La Pira a Moro a Togliatti. Invece la pretesa di personalizzare un referendum su una riforma costituzionale di questa portata è scandalosa.

Si ripete alla rovescia lo schema polemico del 2006?
Non direi. Né Berlusconi né la Lega interpretarono il referendum costituzionale come un voto su di loro. Renzi invece lo ha caratterizzato in questi termini in modo del tutto anomalo, un inedito assoluto nella storia repubblicana. 

Foto Ansa

Tags: italicumMatteo Renziriforma costituzionesussidiarietà
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