Quelli che sognano di importare il “modello cinese” in Occidente

Di Matteo Forte
13 Aprile 2020
Da Beppe Grillo al consigliere di Obama Parag Khanna, tutti i teorici della superiorità del capital-comunismo di Xi Jinping. Pronti a rinunciare alla libertà nel nome dell'efficienza
Xi Jinping

Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Il viceministro della salute, Pierpaolo Sileri, prima di risultare positivo al coronavirus, aveva lodato sul sito di propaganda in lingua inglese del regime di Pechino, il Global Times, le autorità cinesi per «aver condiviso il lavoro di prevenzione con noi». Il 13 marzo è toccato al titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, postare sul suo profilo Facebook l’annuncio trionfante che «non siamo soli», perché «ieri dalla Cina è arrivato un volo con medici, mascherine e ventilatori polmonari. Questo è quello che noi definiamo solidarietà».

Poi fa niente se, come ha ricostruito Giulia Pompili sul Foglio del giorno successivo, «non c’è nessuna donazione, niente di gratis in quello che la Cina sta per mandare in Italia». E fa niente se questa operazione risponde alla necessità di tornare ad esportare prodotti medicali vista la saturazione del mercato interno cinese, come si è letto sul China Daily.

Quanto accaduto nell’ambito dell’emergenza sanitaria sembra corrispondere anche ad un grande riassetto di equilibri geopolitici in cui il regime di Xi Jinping, nonostante la pandemia mondiale esplosagli tra le mani, sembra interpretare la parte del grande approfittatore per conquistare nuovi spazi di influenza. E questo forse è un tema passato in secondo piano rispetto all’emergenza da coronavirus. Solo alcuni osservatori da sempre attenti alle cose cinesi hanno acceso i riflettori e richiamato l’attenzione sulle diverse fasi della propaganda di Pechino: dopo il trionfalismo per l’annunciato contenimento interno è seguito il momento della diffusione del messaggio «la Cina sta salvando il mondo», ha spiegato il sito laogai.it che dà voce alla dissidenza. 

Al di là degli slogan sulle misure anti-Covid-19, quel che tuttavia appare davvero come un pericoloso contagio è l’ideologia subdola che si è insinuata nell’opinione pubblica occidentale, cioè quella secondo cui un regime risoluto nelle sue decisioni appare più efficace della vecchia e malandata democrazia liberale.

Forse è proprio su questo che il governo di Xi Jinping ha voluto fare leva inviando a Roma prodotti medicali. Complice anche un’Europa che ha smarrito le sue ragioni di solidarietà e aiuto reciproco che hanno generato le istituzioni comunitarie all’indomani del più sanguinoso conflitto mondiale. Complice un M5s che, sul blog di Beppe Grillo, già il 13 settembre 2019 amplificava la propaganda del Partito comunista cinese chiamando «centro di “istruzione e formazione professionale”» di Kashgar, nello Xinjiang (regione devastata dalle persecuzioni contro la minoranza musulmana), uno di «quelli che vengono definiti “campi di concentramento” o di “rieducazione forzata” dai media nostrani e da Ong non indipendenti».

Così l’Italia, in estrema condizione di bisogno e in assenza persino di funzioni religiose con concorso di popolo, sembra aver trovato il “santo” a cui votarsi. Strategia e propaganda insomma stanno rafforzando la posizione del comunismo cinese e radicando anche fuori dai confini del gigante asiatico la convinzione che occorra fare il salto dalla democrazia ad altre forme di governo più improntate al problem-solving. Ed è per questo che anche appelli come quelli di Asianews («L’Italia dovrebbe chiedere in “dono” anche la libertà di parola per i cinesi. Il silenzio della leadership ha generato la pandemia», ha scritto in un editoriale padre Bernardo Cervellera) sono caduti nel vuoto e non hanno trovato eco nell’opinione pubblica. 

La tecnocrazia è migliore

Del resto l’indifferenza verso le reali condizioni di vita dei cinesi e l’inclinazione a credere alla propaganda di regime è sostenuta e diffusa persino dai maggiori politologi e accademici che insegnano nelle università del mondo libero o sono consulenti dei governi occidentali. Sembra il ripetersi di quelli che lo storico Paul Hollander aveva definiti «pellegrini politici» descrivendo tanti intellettuali europei che, secolarizzati e scristianizzati, trovarono nell’Unione Sovietica un nuovo oggetto di devozione da magnificare con viaggi e resoconti.

Oggi è Daniel Bell, per esempio, a intitolare un suo libro Il modello Cina. Nel volume il teorico politico canadese spiega come le scelte degli ultimi decenni del regime cinese abbiano permesso a quel paese di raggiungere risultati che nessuna democrazia sarebbe riuscita a garantire. 

Parag Khanna, stratega e tra i guru di riferimento dell’amministrazione Obama, è ascoltato all’interno dei maggiori think tank per raccontare quanto la politica delle nazioni liberaldemocratiche generi divisione e inconcludenza, mentre i governi asiatici prendono decisioni risolutive a vantaggio della popolazione. Nel suo Technocracy in America, tradotto in italiano con il più edulcorato La rinascita delle città-Stato, il pensatore indiano descrive sistemi di governo come quello inaugurato dal leader autoritario Lee Kuan Yew, spiegando che «non dobbiamo stupirci se Singapore ha cercato di istituzionalizzare la tecnocrazia prima della democrazia. Troppa politica corrompe la democrazia; troppa democrazia intralcia la policy. Quando parliamo di politica parliamo di posizioni, mentre quando parliamo di policy parliamo di decisioni. Le democrazie producono compromessi, le tecnocrazie producono soluzioni; la democrazia si adegua [satisfices], la tecnocrazia cerca la soluzione migliore [optimizes]» (p. 37). 

Il pensiero implicito di Khanna è che le decisioni di policy siano separate delle posizioni politiche, ma nella migliore delle ipotesi la sua è una ingenuità. Una decisione è sempre frutto dello stratificarsi di convinzioni, concezioni, significati, cultura e tradizione. Essa non è mai neutra o “oggettiva”, cioè in grado di fare a meno dell’esperienza “particolare” del soggetto che si assume la responsabilità di prenderla.

Tuttavia alla luce del pensiero profuso da Khanna si capisce perché il pluralismo e i contrappesi democratici alla concentrazione del potere possono essere altresì sacrificati. In questo senso l’autore indiano spiega cosa ha fatto Singapore «riducendo l’opposizione a un unico seggio al Parlamento: quello che interessa non è la politica di per sé, bensì i risultati che può produrre» (p. 45). Ed è su tali presupposti che viene eretto a modello universale il capital-comunismo cinese. 

Un’idea suggestiva per l’Italia

Nel più recente Il secolo asiatico?, Khanna elogia proprio l’evoluzione tecnocratica della Cina e la scelta di Jiang Zemin, Hu Jintao e ora Xi Jinping di portare «competenze ingegneristiche e di management ai vertici della leadership dello Stato cinese» (p. 398). Cosicché il modello può essere definito con le parole della studiosa Jessica Teets come «autoritarismo consultivo», per cui «i rappresentanti provinciali, i dirigenti aziendali e gli accademici vengono regolarmente consultati per tracciare la ristrutturazione economica del paese».

Certo, accanto a questo Xi Jinping ha fuso insieme la presidenza del paese e quella del partito e modificato a suo vantaggio la costituzione per garantirsi una continuità di potere e nessuna dissidenza interna, ma non ha eliminato le competenze. «Nonostante il consolidamento del suo potere – riesce persino a scrivere Khanna –, dunque, Xi fa ancora affidamento sugli altri sei membri del Comitato Permanente dell’Ufficio politico del partito e su molti altri funzionari di alto livello che hanno un’esperienza di governance altrettanto approfondita in diversi settori. Negli Stati Uniti, invece, ogni nuovo presidente sostituisce l’intero gabinetto e le prime quattromila posizioni con uomini e donne di fiducia, alcuni (o molti) dei quali non hanno neanche comprensione delle loro responsabilità» (p. 400). 

Insomma il futuro, per un Occidente che sembra ancora non essere uscito dalla lunga crisi innescata nel 2008 dal fallimento delle sue principali banche d’affari, sembrerebbe avere la strada segnata: la tecnocrazia asiatica. E in un paese come l’Italia, in cui dal ’92 ogni emergenza è buona per supplire la classe politica con magistrati, professori, manager e banchieri (tutti rigorosamente non eletti e non responsabili di fronte al corpo elettorale), l’idea può anche apparire suggestiva. 

Il dibattito tra sicurezza e privacy

Non lo nasconde Michele Geraci, ex sottosegretario allo sviluppo economico del governo gialloverde e tra i promotori della firma italiana al memorandum cinese sulla Belt and Road Initiative, «il progetto diplomatico più significativo del XXI secolo» secondo Parag Khanna. Il grillino è infatti autore di un articolo pubblicato il 7 marzo scorso sul China Daily in cui apprezza il fatto che «contrariamente a come agiamo in Italia, la Cina parla di meno e fa di più, e lo fa per perseguire i suoi obiettivi di interesse nazionale».

Per questo Geraci si dice convinto, come titola il suo articolo, che «la Cina emergerà più forte dopo lo scoppio». Infatti le autorità stanno trasformando le misure approntate per l’emergenza sanitaria in grande opportunità; si prenda ad esempio «l’applicazione dell’intelligenza artificiale. In pochissimo tempo, i ricercatori cinesi sembrano aver sviluppato sistemi di riconoscimento facciale molto più raffinati, che consentono il riconoscimento anche per coloro che indossano una maschera. […] È stata inoltre sviluppata un’app che consente a chiunque in tempo reale di avere una mappa del proprio quartiere che mostra le case di coloro che hanno contratto il nuovo coronavirus».

Certo, ammette l’ex sottosegretario grillino, qualche problema tutto questo lo comporta, ma solo all’interno del «dibattito filosofico tra privacy e sicurezza nazionale» che, Geraci ne è sicuro, «sarà senza dubbio feroce in Italia e in altri paesi europei, ma la Cina ci sta mostrando che in tempo di crisi alcune priorità possono essere riadattate, perché la sicurezza nazionale viene prima di tutto». 

Tutte quelle remore della tradizione occidentale a preservare la sfera della vita personale e sociale dall’invadenza del potere, insomma, devono essere accantonate. Si può e si deve fare, perché «la tecnocrazia basata sui dati è dunque superiore alla semplice democrazia rappresentativa perché cattura i desideri specifici delle persone mentre cortocircuita le distorsioni che potrebbero provenire da rappresentanti potenzialmente corrotti e da interessi particolari» (Il secolo asiatico?, p. 392), scrive Khanna definendo quella che sembrerebbe essere una efficacissima sintesi tra tecnocrazia asiatica e mito grillino della democrazia diretta. 

Da Tienanmen a Hong Kong

Dunque si può e si deve rinunciare alla propria privacy a vantaggio di un presunto benessere materiale e della efficienza amministrativa. È quel che promette sempre il blog di Beppe Grillo, trasformato in occasione dell’emergenza sanitaria in ufficio stampa di Huawei. Lo scorso 16 marzo il sito del fondatore del M5s riportava infatti che l’azienda si è proposta di fornire «apparecchiature per reti Wi-Fi 6 a 10 strutture ospedaliere» italiane e di «creare una piattaforma» in grado di «consultare esperti di diverse regioni e condividere informazioni in tempo reale».

Insomma, dietro alle parole d’ordine «condivisione» e «solidarietà digitale», si nascondono i più tradizionali metodi di controllo, influenza ed egemonia politica. «Sebbene – riconosce Khanna –, tali misure possano apparire orwelliane dall’esterno» (p. 423), occorre sapere che «la politica rimane ancora piuttosto controllata, perché è quello che vogliono i regimi e, in larga misura, gli stessi cittadini. […] Gli asiatici comprendono che l’eccessiva libertà esiste e che nelle società sane la responsabilità è un concetto altrettanto importante» (p. 409). 

Parole che stridono con le immagini delle proteste che fino a poche settimane prima della pandemia da coronavirus giungevano dalle strade e dai parchi di Hong Kong. Parole che sembrano uccidere una seconda volta Li Wenliang, il giovane medico che per primo aveva dato l’allarme sul Covid-19, poi è stato silenziato dalla polizia per aver condiviso a fine dicembre le sue preoccupazioni per un’epidemia “simile alla Sars” e successivamente trovato morto.

La libertà riacquistata trent’anni fa col crollo del Muro di Berlino, come simultaneamente ci ricordavano i giovani repressi nel sangue a piazza Tienanmen, non è conquistata una volta per tutte. Per quanto innovativo e tecnologico, il totalitarismo rosso è ancora una minaccia.

@teoforte

Foto Ansa

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