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Qualche appunto sui “numeri da favola” di Barack Obama

Grattata la coltre della retorica, cosa rimane dei suoi due mandati? Parla Massimo Gaggi: «Lo stato d’animo dell’americano medio è di depressione come in Europa»

Leone Grotti
12/01/2017 - 4:00
Esteri
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il 20 gennaio Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca come 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Si chiude così l’era di Barack Obama, durata otto anni e cominciata tra altisonanti squilli di tromba nel 2009. Mai un’amministrazione aveva destato tante aspettative come quella guidata dal primo presidente afro-americano della storia americana. Mai la stampa internazionale aveva così preventivamente osannato un politico come nel caso dell’astro nascente del partito democratico.

Ancora prima che cominciasse il suo mandato, Obama è stata paragonato a un Messia contemporaneo che avrebbe tirato fuori l’America dalle sabbie mobili delle guerre in cui George W. Bush l’aveva impantanata. Non solo, Obama era anche il cavaliere bianco che avrebbe fatto uscire gli Stati Uniti dalla spaventosa recessione cominciata nel 2008, sanando le abitudini malate di Wall Street e riportando lavoro e prosperità. Dalla chiusura definitiva di Guantanamo alla sconfitta di Al-Qaeda, dalla fine della questione razziale all’estensione in tutto il mondo del rispetto dei diritti umani, non c’era sfida che non sembrasse superabile sullo slancio del motto: “Yes, we can”. Le capacità di oratore e il carisma eccezionali dell’ex senatore dell’Illinois sono tali che, sulla scorta dell’endorsement mondiale, nel 2009 Oslo gli consegnò anche un premio Nobel per la pace preventivo «per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la cooperazione tra i popoli».

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Ora che non c’è più spazio per le parole, ed è tempo di freddi e asettici bilanci sulla “legacy” obamiana, che cosa rimane di questo enorme bagaglio di speranze? Gli ultimi atti da presidente e il modo in cui ha lasciato la Casa Bianca, per essere sostituito dal più irritante degli inquilini, tradiscono una certa delusione e frustrazione nello stesso Obama. Prima di tornare un comune cittadino, ha voluto togliersi alcuni sassolini dalle scarpe: dopo aver espulso 35 diplomatici russi per rendere più difficile il rapporto tra Vladimir Putin e Trump, ha deciso di dare uno schiaffo simbolico al governo Netanyahu (dopo aver firmato però un accordo per la vendita record di armi a Tel Aviv da 38 miliardi di dollari), permettendo che passasse una risoluzione Onu contro gli insediamenti israeliani. Ma la caduta di stile finale di un uomo che ha fatto dell’immagine il suo punto di forza non è neanche lontanamente l’unico neo della sua eredità. Le magagne sono altre (e sono tante), secondo l’analisi per Tempi di Massimo Gaggi, inviato a New York del Corriere della Sera.

A prima vista, l’economia è il campo nel quale Obama ha ottenuto i risultati migliori. Quando è entrato alla Casa Bianca il paese era nel pieno della crisi economica, la disoccupazione viaggiava al 7,6 per cento e i prezzi delle case erano crollati. Ora che lascia la presidenza, la disoccupazione è scesa al 4,6 per cento, l’economia è in stabile ripresa e i prezzi delle case sono cresciuti del 23 per cento. La Fed ha la sua parte di merito e anche se gli Stati Uniti non hanno i vincoli di bilancio stabiliti dall’Unione Europea, non si può dimenticare che in otto anni Obama ha fatto crescere il debito americano di 9 mila miliardi di dollari (9.036.534.448.884,32 per la precisione). L’economia in termini assoluti è migliorata ma gli americani sembrano non essersene accorti. «Obama ha ereditato la crisi economica e ha evitato la catastrofe», spiega Gaggi. «Ha approvato un intervento di stimolo fiscale da quasi 800 miliardi di dollari per ridare slancio all’economia e ha deciso coraggiosamente di salvare il settore automobilistico di Detroit. Ha fatto una scommessa evitando la chiusura di Chrysler e General Motors e l’ha vinta. Questo primo periodo della presidenza era caratterizzato da grande ottimismo, poi, nel giro di un paio d’anni, è cambiato tutto».

La riforma sanitaria, il famoso Obamacare, è stata «poco ambiziosa e molto limitata. Ha ottenuto qualche risultato positivo – ora a nessuno viene più negata una polizza assicurativa se può permettersela – ma si è trattato di piccoli ritocchi. Non è intervenuto per risolvere il problema del costo assurdo della sanità americana. Ad esempio, a causa della frammentata struttura delle assicurazioni, i medici devono dotarsi di una specie di studio legale per capire a quale tipo di rimborso ha diritto ogni paziente. Questo fa crescere i costi delle prestazioni. Se poi per iscriversi all’università e diventare medici bisogna fare un mutuo da 300 mila dollari, è chiaro che bisogna chiedere parcelle molto elevate. Si è scoperto che la riforma costava molto più di quanto si pensasse e oltre la metà degli Stati l’ha boicottata, rendendo tutto più complesso».

Il giornalista del Corriere fa un appunto anche sui «numeri da favola» obamiani, ovvero i 16 milioni di posti di lavoro creati. «Se si guarda ai numeri in termini assoluti sono favolosi, ma dietro ad essi si nasconde un dato di forte precarietà del lavoro e soprattutto una quota di part-time elevata. Se nelle metropoli delle due coste le opportunità sono tante, i vasti Stati dell’interno sono depressi e le campagne spopolate. Troppi lavoratori devono cercare un’occupazione diversa ogni due anni circa e accettare paghe sempre più basse, a dispetto dei costi crescenti di sanità e istruzione. La conseguenza è che, rispetto a prima, una famiglia non può più andare avanti con uno stipendio e come da noi, per la prima volta nella storia, i figli hanno prospettive economiche peggiori dei genitori. Ecco perché lo stato d’animo dell’americano medio è di depressione come in Europa».

Se si aggiunge che l’esplosione dello shale gas e oil non è stata merito di una strategia politica, che i grandi trattati di libero scambio internazionali (su tutti il Ttip) sono falliti e che «durante la sua presidenza anche l’evoluzione della questione razziale è stata decisamente negativa», conclude Gaggi, «bisogna dire che Obama è stato un presidente di grandi ideali e ridotta capacità di esecuzione. Positivo nelle intenzioni, ma negativo nei risultati».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: Barack Obamageorge bushobamacareUSAvladimir putin
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