«Perché vogliamo vietare i social agli under 15 in Italia»
«La nostra proposta di legge nasce dall’esigenza di tutelare bambini e adolescenti nella dimensione digitale. Questo perché, anche alla luce degli studi svolti durante le indagini conoscitive della commissione bicamerale Infanzia e adolescenza, si è constatato che molti dei problemi legati alla povertà educativa, ai disturbi comportamentali come l’ansia o la depressione, o alimentari quali l’anoressia, sono accresciuti proprio da quando, per il crollo del prezzo dei telefonini, è aumentato l’utilizzo dei social media».
La senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni è la prima firmataria di un ddl che si potrebbe definire “multipartisan”, in quanto sottoscritto da quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento, che ha l’obiettivo di vietare l’iscrizione ai social media da parte dei minori di 15 anni. La legge è in discussione da alcuni mesi ed è tornata d’attualità sui media dopo che la scorsa settimana il governo australiano ha approvato una misura molto drastica che prevede l’obbligo per le piattaforme di impedire l’iscrizione ai propri canali agli under 16.
“Marciume cerebrale” è la “parola dell’anno”
L’allarme sui danni che un utilizzo indiscriminato di tablet e smartphone provoca su bambini e adolescenti è sempre più diffuso, e molti esperti sostengono che sia scientificamente provata l’influenza dannosa che in particolare i social media hanno sulla salute mentale e lo sviluppo cerebrale dei ragazzi. Non è un caso se, all’inizio di questa settimana, la Oxford University Press, casa editrice dell’Oxford English Dictionary, ha scelto come da tradizione quella che secondo i suoi esperti è la parola che meglio rappresenta «il nostro mondo negli ultimi dodici mesi».
L’espressione scelta per il 2024 è “brain rot”, cioè “marciume cerebrale”: un modo di dire che, scrivono nelle motivazioni, «ha acquisito nuova importanza come termine utilizzato per esprimere preoccupazioni sull’impatto del consumo eccessivo di contenuti online di bassa qualità, in particolare sui social media. Il termine è aumentato nella frequenza di utilizzo del 230% tra il 2023 e il 2024». Per brain rot si intende il «presunto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona, specialmente visto come risultato di un consumo eccessivo di materiale (ora in particolare contenuti online) considerato banale o poco stimolante. Anche: qualcosa caratterizzato come probabile causa di tale deterioramento».
«Guardando indietro all’Oxford Word of the Year degli ultimi due decenni», ha detto Casper Grathwohl, presidente di Oxford Languages, «si può vedere la crescente preoccupazione della società per come le nostre vite virtuali si stanno evolvendo, il modo in cui la cultura di Internet sta permeando così tanto di ciò che siamo e di ciò di cui parliamo. “Brain rot” parla di uno dei pericoli percepiti della vita virtuale e di come stiamo usando il nostro tempo libero. Sembra un legittimo capitolo successivo nel dibattito culturale su umanità e tecnologia».
Social e minori, bisogna «fare qualcosa»
La questione è nota da qualche tempo, e ormai provata scientificamente: per dirla con l’accento di Oxford, il nostro cervello marcisce a forza di essere stimolato da idiozie viste a ripetizione sugli schermi dei nostri device. E se scrolling e algoritmo incidono sulla salute mentale di una persona adulta, per il cervello e l’attenzione di un bambino rappresentano una coppia letale. Da qui la legge approvata in Australia, e quella meno drastica che la senatrice Mennuni, prima firmataria insieme alla collega dem Simona Malpezzi e all’onorevole Marianna Madia (Pd), vorrebbe far approvare in Italia.
Conversando con Tempi Mennuni spiega che l’impulso a “fare qualcosa” arriva innanzitutto dai genitori – Moige, AGeSC e altre associazioni che li rappresentano: «Un genitore non riesce ad affrontare da solo la grande rivoluzione tecnologica in corso», dice la senatrice. «Internet è una grandissima invenzione, però non è a misura di bambino».
Ci sono voluti anni per accorgersene, ma finalmente adulti e istituzioni si sono «resi conto della necessità di una regolamentazione. Siamo in ritardo, però: io ho tre figli, unadi 24 anni, uno di 20 e la più piccola di 10. I campanelli di allarme si sono potuti percepire con i ragazzi che oggi hanno diciotto-vent’anni, perché ci stiamo rendendo conto degli effetti che l’irruzione dei social network dal 2011 in poi ha avuto». Se a questo aggiungiamo le conseguenze sugli adolescenti dei divieti di uscire di casa e della didattica a distanza nei mesi del Covid, si capisce meglio l’origine del “marciume cerebrale” in corso. «Questa situazione richiede un’analisi», dice Mennuni, «e poi va affrontata e regolamentata».
Basta vietare i social ai minori per “salvarli”?
Dati per assodati i danni che i social fanno al cervello dei ragazzi, davvero basterà un divieto per “salvarli”? «Il testo di legge in discussione non prevede un divieto assoluto, è molto “aperto” e in evoluzione: abbiamo previsto il limite dei 15 anni per iscriversi ad alcune applicazioni in cui non vi è un editing. Un conto è la televisione, che ha un editor, cioè qualcuno che decide cosa può essere trasmesso e quando, e prevede ad esempio delle fasce d’età per i contenuti in base all’orario, un altro è un social su cui non vi è un editing e qualunque contenuto può essere fruito a qualsiasi ora del giorno e della notte. Così i ragazzi sono passivamente soggetti a qualunque tipo di contenuto di cui nessuno è in fondo responsabile».
Cosa prevede la proposta di legge
Il testo di legge delega l’Agcom, l’autorità garante delle comunicazioni, a selezionare di anno in anno quali sono le applicazioni che presentano questo tipo di criticità per intenderci, Wikipedia non appartiene a questa categoria, non deve servire una verifica dell’età per accedervi. Per TikTok, ad esempio, sì. Verificare l’età online, però, è più facile a dirsi che a farsi, ammette Mennuni: «È il grande nodo su quale Agcom sta ancora lavorando: un’ipotesi è l’utilizzo del documento d’identità, un’altra è quella di utilizzare un sistema con un soggetto terzo detentore dei dati».
In tutto ciò la Commissione Europea sta facendo studi sull’age verification, per cui «potrà esserci una disapplicazione di una norma nazionale nel momento in cui vi sarà un’ulteriore tecnologia, magari più avanzata e suggerita dall’Europa. Ma nel frattempo non possiamo attendere: ogni giorno che passa noi perdiamo dei ragazzi, perché questo tipo di dipendenza è un fenomeno in crescita. Non è un tema banale, è una questione che riguarda la formazione, la crescita morale e spirituale dei nostri ragazzi».
La china pericolosa dell’algoritmo
Sono significativi i casi di ragazze di fatto portate al suicidio da bullismo social o addirittura dal bombardamento di contenuti estremi che compaiono nei loro feed alimentati dall’algoritmo (Tempi aveva raccontato il caso della ragazza che, cercando su Instagram video per fare ginnastica in casa, era finita nel giro di poche settimane a vedere video che promuovevano l’anoressia). Le prime a doversi assumere più responsabilità sono le grandi aziende tecnologiche, sulle cui spalle infatti la legge australiana fa cadere l’onere di trovare il modo per escludere gli under 16, ma c’è anche il tema del ruolo dei genitori. Tra le critiche mosse da esperti e osservatori, c’è quella per cui una misura paternalista di puro divieto di accesso deresponsabilizzerebbe padri e madri alle prese con figli sempre più dipendenti dai device.
Che cosa fanno le Big Tech
Mennuni spiega come siano stati sentiti sia i rappresentanti delle piattaforme social, da Meta a Google passando per TikTok, sia le associazioni dei genitori e queste ultime «ci hanno rappresentato una massima approvazione per questo testo, proprio in quanto le famiglie da sole non possono affrontare tale rivoluzione, sia perché le famiglie non sono più quelle di una volta, le madri spesso lavorano, sia perché lo strumento è più difficile da controllare di quanto poteva essere la televisione».
«Il primo obiettivo che vogliamo raggiungere con questa proposta che speriamo diventi legge è accendere i riflettori su un dibattito che non è più rimandabile: si dovranno fare grandi campagne di comunicazione indirizzate a bambini, ragazzi, famiglie innanzitutto per sensibilizzarli. Molti genitori, infatti, non si rendono conto dei pericoli che si annidano dietro a quegli strumenti, non avendo specifiche competenze». Una cosa, questa, che sembrano aver capito anche le piattaforme, come dice Mennuni: «Sono stata lieta di constatare che stiano facendo un grande lavoro negli ultimi tempi – dal decreto Caivano in poi – per cercare di trovare i migliori strumenti atti a facilitare il parental control e sensibilizzare le famiglie. E questo è un primo risultato positivo».
Social e minori, il ruolo della scuola
In tutto ciò non si può prescindere dalla scuola, luogo di educazione in cui i ragazzi passano gran parte del loro tempo e in cui gli stessi insegnanti sono spesso confusi sull’argomento. «Il lavoro di sensibilizzazione va fatto anche con i docenti. I ragazzi sono sempre meno abituati a scrivere a mano e a leggere sui libri, certe scuole addirittura consegnano ai propri studenti dei tablet su cui farli lavorare e studiare: il risultato, confermato da numerosi neuroscienziati, è che imparano sempre di meno, tanto che il quoziente intellettivo medio di questa generazione si sta abbassando».
È una grossa responsabilità per la politica, dice Mennuni: «Delegare in toto ai genitori oppure rendersi conto che non tutte le famiglie hanno gli strumenti per capire come affrontare il problema e trovare un modo per salvaguardare questa generazione». Come? «Io penso che se ci si sforza si possono trovare le tecnologie migliori per proteggere i ragazzi, anche solo per un periodo di qualche anno».
Nella legge si prevede che un genitore possa scegliere l’età a cui far accedere il minore a una piattaforma: «Lo Stato non prevarica la scelta di un padre o di una madre che reputano il figlio tredicenne o quattordicenne in grado di stare su un social. Il divieto fino a 15 anni ha anche un ruolo di moral suasion: se un genitore sa che è vietato capisce meglio che ci sono dei possibili rischi per il figlio». Nessuna caccia alle streghe, assicura Mennuni, piuttosto «la necessità di dare maggiore attenzione a un fenomeno complesso su cui è bene che si discuta».
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