Scuole e famiglie americane fanno causa a Instagram, TikTok e compari
Istruzione in rivolta contro le big tech: le scuole pubbliche di Seattle hanno intentato una causa contro Meta (proprietaria di Facebook, Instagram, WhatsApp), Google (YouTube), TikTok (della società cinese ByteDance), Snap (che controlla SnapChat). Lo hanno fatto depositando il 6 gennaio scorso un corposo documento di 91 pagine presso il tribunale distrettuale degli Stati Uniti.
Non era mai accaduto che le istituzioni educative di un’intera città si coalizzassero contro i giganti dei social media: stiamo parlando di circa cento scuole, frequentate da cinquantamila studenti, numeri che danno peso alle oltre 150 cause intentate negli ultimi due anni da circa 1.200 famiglie americane contro i proprietari delle piattaforme, una dozzina delle quali dopo aver seppellito un figlio.
La rivolta delle scuole di Seattle contro i social network
L’accusa è precisa: «Gli imputati hanno sfruttato con successo i cervelli vulnerabili dei giovani, agganciando decine di milioni di studenti in tutto il Paese attraverso un circuito vizioso di risposte positive sui social media che porta all’uso eccessivo e all’abuso delle piattaforme. Peggio ancora, il contenuto che gli imputati propongono e indirizzano ai giovani è troppo spesso dannoso e teso allo sfruttamento per interessi economici», si legge negli stralci del documento anticipati da Abc.
«Dipendenza», «avvelenamento delle menti»: non usano mezzi termini le scuole americane giunte alla resa dei conti con la dissoluzione dei legami, i danni del lockdown e non da ultimo dello spietato algoritmo utilizzato in particolare da Meta per diffondere discordia tra gli utenti, enfatizzando le posizioni più estreme, e così massimizzare i contatti e il tempo trascorso sulle piattaforme. Ricordate lo scandalo che travolse il social nework scatenato dalle inchieste del Wall Street Journal e dalle rivelazioni a 60 Minutes della Cbs l’ex dipendente di Mark Zuckerberg, Frances Haugen, sui cosiddetti “Facebook Files” in cui erano ben riportati studi interni sui danni psicologici seri causati da Instagram alle ragazze più giovani? Dai documenti condivisi internamente c’era la prova di come la piattaforma per immagini spingesse i più giovani a sentirsi poco attraenti, in una continua comparazione sociale con gli altri utenti. In altre parole la big tech sapeva cosa stava facendo, ma limitandosi a introdurre controlli parentali sulle sue app si era trincerata dietro il Communication Decency Act, che sgrava le aziende online dalla responsabilità derivata da ciò che gli utenti di terze parti pubblicano sulle loro piattaforme.
Dall’educazione in classe alla prevenzione sui social
Una legge che le scuole di Seattle hanno deciso di prendere per le corna: nessuno sostiene che gli imputati siano responsabili «per ciò che terzi hanno detto sulle loro piattaforme», ma della loro stessa condotta: «Gli imputati raccomandano e promuovono affermativamente contenuti dannosi per i giovani, come contenuti pro-anoressia e disturbi alimentari».
Nelle 91 pagine si sottolinea l’aumento esponenziale in età scolastica di ansia, depressione, problemi psicologici acuiti dalla dipendenza da social, problemi con il cibo, cyberbullismo; in dieci anni, tra 2009 e 2019 è aumentato del 30 per cento il numero di ragazzi che si dichiara «tristissimo», «senza speranza» per lunghi periodi. Tutto ciò, secondo le scuole di Seattle, ha ostacolato l’istruzione dei ragazzi in classe e costretto gli insegnanti a chiedere il costante e continuo supporto di professionisti della salute mentale, sviluppare piani didattici alternativi e paralleli sui danni dei social media, nonché a formare l’organico sul tema. Risarcire i danni, pagare per la prevenzione e le cure necessarie, causate dall’uso eccessivo e problematico dei social media: questa la prima richiesta delle scuole decise a tornare ad adempiere alla loro missione educativa e non solo di “tamponamento” dei danni causati dal web.
Aggirare i controlli è un gioco da ragazzi
Alle richieste di dichiarazioni dei giornali Meta e TikTok hanno fatto spallucce, Google ha difeso le “funzionalità” che permettono ai genitori di far vivere ai figli esperienze sicure, Snapchat ha sottolineato di avere attivato un numero anti-suicidi, un sistema di supporto in-app chiamato Here For You proprio per aiutare coloro che «potrebbe avere una crisi di salute mentale o emotiva a trovare risorse esperte», nonché di avere abilitato impostazioni che «consentono ai genitori di vedere chi contattano i loro figli su Snapchat, sebbene non il contenuto di quei messaggi». Dopo veleno, per usare il temine dei querelanti, la cura.
Quanto ai filtri e alle funzionalità del parental control, basti ricordare il servizio di 60 Minutes trasmesso a dicembre dalla Cbs sulle famiglie che hanno fatto causa ai proprietari della piattaforme. Tra questi ci sono gli Spence che hano citato in giudizio Meta: Kathleen e suo marito Jeff Spence sostengono infatti che Instagram abbia portato la loro figlia Alexis a soffrire di depressione e gravi disturbi alimentari all’età di 12 anni. Insegnanti entrambi, avevano consegnato un cellulare alla ragazzina allora undicenne per poter restare in contatto con lei quando rientrava da scuola, insieme a poche e rigide regole: non si dorme col telefono in camera, cellulare ritirato dopo cena, controlli parentali attivi. Tutto inutile, in pochissimo tempo la ragazzina, al pari dei coetanei, imparò ad aggirare le restrizioni, a recuperare il telefono non appena i suoi andavano a dormire per poi navigare su Instagram con i compagni di classe: tutti avevano un profilo, iscriversi era facilissimo. «L’app ti chiede: “Hai 13 anni o più?”. Ho selezionato la casella “sì” e poi ho continuato. Nessuna verifica o qualcosa del genere».
Alexis, dal fitness ai contenuti sull’anoressia
Per molti mesi i genitori non si accorsero di nulla: grazie ad app apposite l’icona di Instagram poteva essere nascosta o “camuffata” da strumenti quali una calcolatrice. I guai cominciarono quando Alexis iniziò a cercare video per fare fitness e l’algoritmo iniziò a proporle contenuti a tema dieta e da lì account e post di ragazze ossessionate dal peso forma: foto di persone magrissime, pelle e ossa, corredate da post con l’elenco delle calorie ingerite. Cronologia di navigazione e ricerche fecero il resto: «Imparai a conoscere le pillole dimagranti e come perdere peso durante la pubertà (…) Avevo bisogno di aiuto. E invece di ricevere aiuto, ricevevo consigli su come continuare». Incapace di raggiungere i risultati attesi Alexis sviluppò una dipendenza da quelle foto che tanto la facevano sentire inadeguata e una grande depressione. Iniziò a postare messaggi sempre più espliciti sulla vita senza senso, finché un amico decise di avvisare dirigente scolastico: «Quello è stato il giorno più spaventoso della nostra vita – ha raccontato la madre -. Ho ricevuto una chiamata dalla scuola. Sono andata lì e mi hanno solo mostrato tutti questi post su Instagram su come Alexis voleva uccidersi e farsi del male».
Dopo lo scandalo sui “Facebook Files” l’avvocato degli Spence, Matt Bergman, ha dato vita al Social Media Victims Law Center e sono oltre 1.200 le famiglie che attualmente stanno portando avanti azioni legali contro società di social media come Meta. La tesi del legale è che le big tech abbiano «progettato intenzionalmente un prodotto che crea dipendenza. Sanno che se i ragazzini restano online, guadagnano di più. Non importa quanto sia dannoso il contenuto». Secondo Bergman non è in discussione la responsabilità genitoriale: è ovvio che spetti a mamma e papà controllare o affiancare i ragazzini nell’uso dei social, il tema è un altro: «Questi prodotti sono esplicitamente progettati per eludere l’autorità dei genitori». E se da un lato si può fare di più sul lato della verifica dell’identità e del controllo degli adulti sui minori, dall’altro disattivare gli algoritmi sarebbe un inizio di rivoluzione, «non c’è motivo per cui Alexis Spence, che era interessata all’esercizio fisico, avrebbe dovuto essere indirizzata verso contenuti anoressici». O peggio.
Englyn ha imparato come impiccarsi su Instagram
I genitori della 14enne Englyn hanno trovato la loro figlia impiccata una notte di agosto del 2020. Non avevano idea fosse depressa, nel suo cellulare compariva un video: quello inviatole da un amico di una donna che su Instagram fingeva di impiccarsi alla stessa maniera usata da Englyn. Un anno e mezzo dopo quella terribile notte il video circolava ancora su Instagram con migliaia di visulaizzazioni. Nonostante le segnalazioni è stato rimosso solo nel dicembre 2021. Meta ha assicurato di avere migliorato la «tecnologia di verifica dell’età» e fatto molto da allora negando di consentire la pubblicazione di «contenuti che promuovono l’autolesionismo o disturbi alimentari». Il resto, ripetono dalla big tech, è responsabilità dei genitori.
A ottobre, poche settimane prima di trasmettere il servizio per 60 Minutes, la giornalista ha provato a iscriversi a Instagram come una tredicenne: ha mentito sull’età, ha cercato contenuti dannosi, ha visualizzato un messaggio che le chiedeva se aveva bisogno di aiuto, lo ha chiuso, ha cliccato “vedi post” ed è approdata subito in un una landa di contenuti e immagini a promozione di eutanasia e autolesionismo.
Foto di Gaelle Marcel su Unsplash
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