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Periferie esistenziali. Il curriculum dei borgatari romani, costretti a scoprirsi uomini tra monnezza, cemento e famiglie sfasciate

Continua il viaggio di Tempi nelle "periferie esistenziali". Seconda tappa: una scuola agli estremi confini della capitale

Monica Mondo
15/06/2014 - 1:30
Società
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Con questo articolo di Monica Mondo ambientato a Roma continua il viaggio di Tempi nelle periferie dell’esistenza. La prima tappa, di Rodolfo Casadei, è stata nella regione dei tupurì africani, a cavallo tra Camerun e Ciad.

Quando Roma sembra finire, dopo l’ennesimo colle, dopo distese di prati, dopo le pecore al pascolo, tornano grumi di case, sempre più fitte, a formare borgate infinite. Altri paesi, altri mondi, nomi che evocano memorie pasoliniane o scenari più cupi, quando i quartieri diventavano famosi per gli attentati, i roghi e destra e sinistra erano categorie inconciliabili, tagliavano la realtà in due, e non sempre l’una era la parte dei poveri, dimenticati, e l’atra quella dei ricchi. In borgata, accadeva l’opposto.

Si chiamano tutte Primaqualcosa e Tor di Qualcos’altro, periferie, cui accosti d’impulso quell’aggettivo, “esistenziali”, usato spesso da un papa, che rende così bene un mix di abbandono, ignoranza, solitudine, giardini spelacchiati, case garage e centri commerciali, vie di spaccio e annoiato bullismo adolescenziale. Si sta ai margini anche della vita, in posti così, ne sei sicuro. Dove arriva soltanto un autobus e le fermate sono ai bordi dello stradone con le erbacce e i baracchini dei nomadi, o dei venditori di fragole e fave. La scuola è l’ultimo presidio, il fortino dove la socialità è controllata, dove si tenta un rapporto con gli adulti, dove si impara a guardare il mondo, oltre i reticolati, i campi e gli sfasciacarrozze. Forse per questo l’Istituto tecnico sembra un bunker, un block da architettura sovietica. Grigio, squadrato, simmetrico, soffocante, in mezzo al nulla, a un chilometro dall’imbocco dell’autostrada.

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I ragazzi dell’ultimo anno partecipano a un progetto che li mette in contatto con la realtà del lavoro, devono imparare a scrivere un curriculum, a comunicare chi sono, prepararsi a un colloquio. Un’ora ciascuno, un’ora a tu per tu con diciottenni sconosciuti, strafottenti e svogliati, sospettosi, con in mano solo il prontuario del selezionatore di professione. «Lei si sente più un leader o un follower?». Non si può cominciare così, ma sulle altre domande si può lavorare. «Come la considerano i suoi amici? Cosa vorrebbe cambiare di sé? Cosa ti porti da questi anni di scuola?». Bisogna passare al tu, stabilire un legame. L’autocoscienza, i sogni, si va sul personale, per sgretolare la scorza, il menefreghismo apparente. Sarà durissima.

La scuola che ti fa lavorare prima
Invece, i ragazzi rispondono. Educati, seri, gentili. Sgranano gli occhi, lasciano cadere le maschere, le difese, e raccontano, mangiandosi le unghie laccate di verde, tormentandosi il cappellino che si sono levati all’entrata, cercando la postura migliore, per nascondere l’imbarazzo e il chewing gum masticato che non sanno dove mettere. Ma raccontano, cominciando proprio dalla scuola, che non era la preferita, ma permetteva di trovare subito un lavoro, credevano i genitori. E dove hanno imparato «a stare insieme, a rispettare gli insegnanti, che si danno un sacco da fare, li rispetti per quel che sono, non per paura».

Guardandola bene, questa scuola di periferia, dall’interno, non è affatto male: luce, corridoi larghi, perfino un giardino coperto e un bar, la palestra grande, la biblioteca e i laboratori, decine di fotografie alle pareti, e disegni, acquerelli. Passa in corridoio un ragazzo in carrozzina, accanto l’insegnante di sostegno. Le disabilità trovano posto, qui, e aiuto. Tanti stranieri, sembrerebbe. «Io sono italiano», dice Issa, un ragazzone scuro scuro, famiglia del Camerun, che ha fatto le olimpiadi di matematica, perché «ci sono portato, mi piacciono i numeri, vorrei continuare all’università». La metà non ha voglia di studiare, l’altra metà sì, e rimpiange di non aver fatto il liceo. «Perché? Spesso il liceo è un parcheggio dove si studia meno e con la strafottenza di chi si posteggerà in un altro parcheggio, dopo». Ti guardano stupiti, increduli, non ci hanno mai pensato, che loro non valgono meno.

Loro, che hanno già provato a lavorare, al supermercato o al Caf, dallo zio meccanico o dall’amica parrucchiera, «perché è inconcepibile, a diciott’anni, non essere almeno un po’ indipendenti, non pesare a casa». La famiglia è un punto di riferimento, di forza, anche quando non c’è più. E si commuovono, o gridano con lacrime silenziose la separazione dei genitori, un lutto.

Loro, che ce l’hanno fatta col sei a stento, qualche anno coi debiti, ma «poi mi sono impegnato, i prof mi hanno aiutato molto». «Va bene, non ti va di studiare, ma giochi nella primavera del calcio, ti alleni tre ore al giorno, sei stato un grande ad arrivare alla maturità». Mira ha rifatto l’anno, è lo scacco più grande della sua giovane vita, pensa di aver perso tutto il tempo a disposizione. «Ma se lavori tutti i sabati e le domeniche, e ogni giorno di vacanza, e devi star dietro ai fratelli, preparare il pranzo e la cena, non chiedere troppo a te stessa, ce l’hai fatta comunque, questo conta».

Loro, che vorrebbero fare economia o lingue, ma non possono permetterselo, non hanno le basi e i soldi. «Basi ne avete eccome, studiate economia, diritto, fate bene due lingue straniere, un sacco di ragazzi studiano e lavorano allo stesso tempo». Coraggio, è la parola che devi ripetere più spesso. È un delitto rubare la speranza, costringere alla disillusione, alla rassegnazione ragazzi così. «La crisi, la disoccupazione, si lavora solo in nero…». I vostri nonni, ve ne hanno parlato? Sono usciti da una guerra, dalla miseria, erano semianalfabeti. E ce l’hanno fatta. Pensate di stare peggio di loro? Fanno cenno di no, è vero, questa crisi bisogna imparare a conoscerla, anche quando la esagerano, e sfidarla.

Mediazione culturale e diplomazia
Janaan sa l’arabo come l’italiano, Stella il filippino, e tutt’e due parlano inglese alla perfezione: mediazione culturale, diplomazia, ci sono opportunità concrete. Antonio vorrebbe fare il vigile del fuoco, ma è troppo timido, non lo prenderanno mai. Poi scopri che sta nei boy scout da dieci anni, che nel tempo libero fa giocare i ragazzini dell’oratorio. «Questo è curriculum, fa punti, ne terranno conto, vedrai». Mattia non ha più il papà, e quattro fratellini, vorrebbe entrare nell’esercito. «Tu sei capace di sacrificare spazi e tempo per gli altri, sei diventato responsabile e maturo per forza, secondo me sei perfetto per la vita militare». Luana vorrebbe fare l’estetista, ma anche architettura. Soprattutto architettura, confessa quasi in colpa, ma la sorella è estetista, ha un negozio. «Aiuta tua sorella e prova a studiare». Si convincono poco a poco, ed è un torrente di storie, di amicizie, di amori, di fatica.

Periferie. Sono ragazzi puliti, curiosi, si commuovono se ti scappa un «devi volerti bene, sei una bella persona, vali tantissimo». Ti consegnano la vita e tu pensi ai liceali che conosci, così cinici e presuntuosi, così benestanti da non desiderare altro che la serata del prossimo sabato. Qui non hanno macchinette o moto, al massimo qualche cinquantino strausato. Le magliette firmate sono tarocche, e indulgono parecchio alle mèches biondo platino, anche i maschi, ai piercing, ai top fluo. «Leggi?». Pare un’offesa. «Mi hai detto che non riesci a esprimerti bene, che ti blocchi se devi discutere. Leggi e scrivi per essere più libero e sicuro, per avere sogni più grandi. Non importa cosa, sei della Roma? Allora va bene il libro di Rudi Garcia, perfetto. Leggi qualunque cosa».

Cosa desideri di più, come ti vedi, tra dieci anni? «Una famiglia». Spiazzata un’altra volta, crollano tutte le usuali analisi sociologiche, i consuntivi statistici, gli indicatori di tendenza giovanili. Una famiglia, cioè? «Sposarsi ed avere dei figli, niente di più bello al mondo, la cosa più grande che puoi fare». Insomma, «coi miei ci litigo», oppure «loro litigano sempre», si sono pure lasciati, ma che c’entra, «è bello comunque, anche se uno non ci riesce, mica è così per tutti, no? Bisogna provarci, crederci». È la prima risposta, per tutti. Sembra impossibile. Tutto dice l’opposto, e lo dice di voi! Capite perché dovete leggere, almeno i giornali, ascoltare i tiggì? Per non farvi usare, per capire se «qualcuno vi si fila, ma sul serio».

Periferie. Ieri mattina, uscendo da scuola, ho visto i papaveri. Proprio in mezzo alle erbacce, dove sgommano le macchine, sul bordo della strada. Decine di papaveri rossi, bellissimi, sotto il sole di maggio, allargavano il cuore.

@Monicamondo

Tags: disoccupazioneEducazioneFamigliaformazione professionaleimmigratiimmigrazioneistituti tecniciLavoromonica mondoperiferie esistenzialiRomaScuola
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