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Per far piacere alla Cina i giornalisti di Hong Kong si autocensurano

Hong Kong diventerà cinese solo nel 2047, quando scadranno i 50 anni di libertà amministrativa concessi alla città che, nel 1997, è stata “restituita” dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese senza consultare la volontà dei cittadini. A Hong Kong, pensano in molti, restano appena 35 anni di economia libera, di governo della legge e di libertà di stampa. Poi si passa al comunismo. Ma la libertà di stampa, forse, ha fatto il passo più lungo della gamba e paga già pegno all’enorme influenza cinese sulla penisola.

Quindici anni dopo il patto tra Regno Unito e Cina, celebrato la scorsa settimana con l’arrivo a Hong Kong del segretario generale del Partito comunista cinese Hu Jintao, la città già non sembra più una Regione amministrativa speciale. E la stampa lo dimostra. Nonostante la carta stampata sia diffusissima – esistono 642 periodici e 46 quotidiani per appena 7 milioni di cittadini – e la libertà di stampa garantita dalla Basic Law, l’87 per cento dei 663 giornalisti presenti in città assicurano di non sentirsi pienamente liberi.

Il metodo più diffuso per limitare la libertà di stampa a Hong Kong è infatti l’autocensura. Il 79,2 per cento dei giornalisti, la cui opinione è stata raccolta in un sondaggio ad aprile, ha detto che dal 2005 l’autocensura è aumentata. E ha portato a due casi clamorosi. Il primo risale alla vigilia delle elezioni del 2012, vinte da Leung Chun-ying, che tutti assicurano essere filo-cinese e appoggiato da Pechino. Tre giorni prima del voto Sing Pao, noto quotidiano locale, ha pubblicato un editoriale del famosissimo commentatore Johnny Lau, che diceva: «Tra i due candidati, prefersisco Leung Chun-ying». Peccato che Lau avesse in realtà scritto che entrambi i candidati erano inaffidabili.

Interrogato, il direttore della testata ha ammesso di aver modificato l’editoriale per renderlo coerente con il titolo in prima pagina, che appoggiava Leung. Poco tempo dopo, il consueto editoriale di Lau è del tutto scomparso dal giornale senza apparenti motivazioni, ma in seguito a un articolo del giornalista su un dissidente cinese. Difficile non vedere lo zampino del Dragone.

Il secondo caso, quello più eclatante e che ha fatto più scalpore sulla penisola, si è svolto nella redazione del quotidiano più famoso di tutta Hong Kong: il South China Morning Post, conosciutissimo anche all’estero, tra le fonti più autorevoli per quanto riguarda le notizie sulla Cina. Un mese fa il quotidiano ha accorciato un articolo facendolo diventare una breve di appena 100 parole. Niente di male, se non fosse che l’argomento era la morte misteriosa – suicidio per il Partito comunista cinese, omicidio per il resto del mondo – del dissidente e leader del movimento di Piazza Tiananmen Li Wangyang mentre era sotto la custodia della polizia comunista.

Alla domanda sul perché un giornale che si è sempre distinto per informare sui dissidenti e le magagne della Cina avesse improvvisamente snobbato una notizia tanto importante, che ha fatto scalpore in tutto il mondo, il nuovo direttore del quotidiano Wang Xiangwei ha risposto: «Perché sì». Incalzato da tutta la redazione il direttore, che è anche membro della Conferenza consultiva del popolo cinese della città di Jilin, ha aggiunto: «Perché ho deciso così, non volevo dare subito spazio a una notizia che continuava ad arricchirsi di nuovi particolari e dettagli». Non pochi hanno mostrato perplessità davanti a questa motivazione. Il Scmp si è deciso a parlare di Li Wangyang solo dopo che 25 mila persone si sono recate in piazza per protestare contro la sua uccisione. Anche se mancano ancora 35 anni al ritorno di Hong Kong sotto Pechino, la Cina non è mai stata così vicina.

@LeoneGrotti

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