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La tragedia del Nicaragua raccontata da un sacerdote perseguitato

Padre Uriel Vallejos racconta a Tempi le violenze del regime di Ortega contro il suo popolo e la Chiesa. «Mi pedinano e cercano di eliminarmi. A chi mi dice di fuggire rispondo: no, io rimango qui»

Paolo Manzo
27/01/2022 - 4:25
Chiesa
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Padre Padre Uriel Vallejos durante una funzione nella sua parrocchia, la chiesa della Divina Misericordia di Sébaco

Padre Uriel Vallejos ha 43 anni ed è il parroco della chiesa Divina Misericordia di Sébaco, nel dipartimento di Matagalpa, «l’epicentro dei massacri nel nord del paese ordinati direttamente da Daniel Ortega, il 14 maggio del 2018». È lui stesso a raccontare a Tempi come in quell’occasione si «frappose tra i proiettili sparati dai paramilitari vestiti da polizia e il suo popolo». Momenti tragici con molti morti e tanto sangue per le strade.

Padre Uriel è stato il direttore della Caritas in Nicaragua, scontrandosi numerose volte con Rosario Murillo e Daniel Ortega, la coppia presidenziale che governa in modo dittatoriale il Nicaragua. Casus belli, lo sdoganamento delle donazioni che l’organizzazione religiosa riceveva. «Abbiamo perso 18 milioni di dollari in prodotti, medicine, che erano arrivati nel paese. Abbiamo aiutato gli ospedali ma ci hanno rubato diversi container, ne hanno bruciato altri con le donazioni, è stata una situazione molto difficile».

Per spiegare la tragedia del Nicaragua, padre Uriel parte dal 2018, perché è da allora che il suo paese «è lacerato, e anche portare una bandiera del Nicaragua è un grave delitto qui». La goccia che fece traboccare il vaso è ciò che Ortega fece quattro anni fa con le già misere pensioni degli anziani, “rubandone” di fatto il 5 per cento. «La gente allora si è ribellata e la lotta si è estesa in tutto il paese. Ma immediatamente il governo ha risposto con le armi e la repressione del popolo».

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Che cosa ha fatto la Chiesa cattolica?

Tramite la Conferenza episcopale del Nicaragua, la CEN, ha mediato per l’apertura di un dialogo tra il popolo e il regime, però Ortega non si era reso conto che chi aveva invitato a mediare erano sacerdoti che amavano il suo popolo e che i vescovi sono persone che sanno cosa anela la sua gente e vuole loro bene.

Ortega non ha ascoltato nessuno, eppure i problemi della gente avevano radici antiche

Sì, c’era già stato uno studio molto importante che i vescovi gli avevano presentato nel 2014, dove si invitò il governo alla nunziatura per discutere dei temi che già allora sfiancavano la società nicaraguense. «Se non fate nulla – dicemmo ad Ortega già otto anni fa – ci sarà una rivolta sociale». Ma Ortega non ci fece caso. I vescovi avevano profetizzato che sarebbe finita così.

Dopo il sangue del 2018 che è successo?

Il primo tentativo di dialogo è fallito perché Ortega non ha mantenuto le promesse. Poi un secondo tentativo è andato a vuoto perché a quel punto il presidente voleva dialogare solo con persone del suo stesso partito. Fino ad allora non c’era ancora repressione contro la Chiesa, ma quando Ortega ha visto che denunciavamo le violazioni dei diritti umani e la repressione paramilitare, allora ha cominciato ad attaccarci con forza.

Come, in concreto?

Perseguitando molti sacerdoti e vescovi, a cominciare dal mio, Monsignor Rolando Álvarez Lagos, Monsignor Silvio Báez che è andato in esilio, Monsignor Abelardo Mata, Monsignor Enrique (Herrera Gutierrez, ndr), il presidente della CEN. Ma soprattutto contro noi preti di qui, perché siamo nell’epicentro del massacro. Noi sacerdoti della zona ci siamo messi tra i proiettili e la gente, da lì c’è stata un’escalation della repressione. Ricatti verbali, minacce e persecuzione da parte di Ortega contro sacerdoti e alcuni vescovi sono all’ordine del giorno. Intimidazioni, vigilanza delle omelie, registrazioni delle prediche… hanno persino mandato poliziotti vestiti da civili per vedere chi viene a messa, cosa dice il prete, una situazione molto dolorosa nella quale siamo ancora immersi.

In Nicaragua si parla spesso di due pandemie

Sì, la pandemia rappresentata dal governo in carica e la pandemia sanitaria, che ha fatto aumentare con forza la disoccupazione, la povertà, l’emigrazione. Molti bambini hanno lasciato il Nicaragua con le loro famiglie.

Lei dirige il collegio San Luis Gonzaga, con 619 alunni. Come state vivendo questo momento?

Nel 2019 il regime ha arrestato dei nostri maestri. È un disastro, un dolore molto forte. Se ne sono andati i papà e le mamme e molti bambini sono rimasti in casa con i nonni, con le zie, famiglie intere sono emigrate a forza, perché minacciate. La situazione è dura sul fronte educativo, ci sono molti ostacoli e ad alcuni maestri pagati dal ministero dell’Educazione è stato bloccato il pagamento dello stipendio. Al collegio San Luis Gonzaga abbiamo bisogno di aiuti, la nostra educazione si basa su un progetto, quello di “costruttori di cultura di pace e sviluppo umano integrato” che insegniamo ai nostri alunni e anche ai loro genitori.

Com’è stata la crisi del Covid e come ha aiutato la Chiesa?

Tra il 2020 e il 2022 è stata molto dura perché qui il vaccino non arrivava se non per pochissime persone, mentre da parte del governo c’era solo repressione e molti morti. Certi giorno io contavo 7, 8 decessi solo a Sébaco. Molta gente è dovuta emigrare per farsi il vaccino e io mi sono organizzato con i miei parrocchiani per portarli in Honduras perché si vaccinassero con Moderna. Sono stati oltre 100mila quelli che sono andati là per vaccinarsi.

Lei è minacciato di continuo dal regime

Sì, per mesi quando ero responsabile del centro anziani San Francesco di Assisi, hanno tentato di investirmi con un camion, grazie a Dio non ci sono riusciti. Poi qui dove vivo ci sono state per mesi quattro pattuglie con 75 paramilitari vestiti da poliziotti. Inoltre, ogni volta che esco mi pedinano per sapere dove vado. Mi sento sempre abbastanza minacciato. Ma non ho paura, anche se probabilmente stanno registrando questa intervista.

C’è una speranza per il futuro del Nicaragua?

Abbiamo fatto un’analisi di recente, a livello di clero, e molto sono i temi urgenti nel dipartimento di Matagalpa. In primis la tratta delle persone, l’emigrazione forzata, lo sfruttamento minerario, l’inquinamento e la siccità causata dall’estrazione aurifera. Ci sono persone sconosciute che sono arrivate qui e si sono arricchite dall’oggi al domani, anche perché il narcotraffico è molto forte, in tutto il paese ma soprattutto qui. La nostra speranza oggi è che l’Organizzazione degli Stati Americani, l’OEA, intervenga, anche se ultimamente non si è espressa più con tanta forza. Il mio popolo sta soffrendo, e la Chiesa con lui.

Quanto crede che possa ancora resistere?

La mia idea e ciò che mi dice il mio cuore è di resistere qui il massimo che potrò. Esco poco oramai, sto recluso nella mia casa curiale, celebro la messa e rimango in casa, mi vengono a trovare i miei famigliari ma ho poche relazioni sociali a causa della mia sicurezza. Ho dovuto cambiare la mia auto, quando esco uso le vetture di altri a causa della persecuzione, delle minacce e dell’assedio contro la mia persona. Sono molto amico del padre Edwin Román, emigrato lo scorso anno negli Stati Uniti, che tutti i giorni mi dice «dovresti lasciare il Paese, sarebbe meglio». Ma io per ora rimango. E obbedisco al mio vescovo che ieri ci ha fatto visita. C’era molta gente e molto dolore, perché l’emigrazione è di massa. Ho 9 parrocchie e dieci comunità, da una di queste se ne sono andate 87 persone e conosco tutti i casi. Oggi il Nicaragua vive una tragedia ed il mondo ci deve aiutare.

Tags: chiesa cattolicadaniel orteganicaragua
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