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Pacifico mica tanto. Così le relazioni tra Cina, Giappone e le due Coree rischiano seriamente di finire in guerra

Le isole contese, gli interessi commerciali, il nazionalismo rampante, la corsa agli armamenti. L'Estremo Oriente passerà dal miracolo economico al conflitto aperto?

Stefano Vecchia
02/02/2014 - 2:00
Esteri
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Fino a non molti anni fa, “Estremo Oriente” era sinonimo di miracolo economico. Trainato dal Giappone, poi con il prepotente arrivo sulla scena del colosso cinese e infine, nell’ultimo decennio, della Corea del Sud. Una catena di eventi-fotocopia all’apparenza. Oggi, in una situazione in cui queste nazioni si trovano su un piano di maggiore equilibrio economico, emergono con evidenza le tensioni storiche e nascono nuove prospettive di conflitto accentuate da una corsa agli armamenti che ha pochi uguali al mondo.

Mercoledì 22 gennaio, a Davos, nel suo discorso in occasione del World Economic Forum, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha chiesto al mondo di evitare una corsa agli armamenti in Asia per non rischiare un conflitto regionale dalle conseguenze catastrofiche. «I benefici della crescita asiatica non devono essere sprecati nell’espansionismo militare», ha avvisato Abe, senza però menzionare la Cina che Tokyo ritiene stia minacciando in modo crescente il suo paese e altri vicini. Pretattica in vista dell’intervento di due giorni dopo del ministro degli Esteri cinese nella stessa sede, ma allo stesso tempo una problematica reale, che ha al centro i rapporti tra le due potenze continentali con ampie capacità militari, ma che riguardano anche altri attori regionali.

Due dei protagonisti, Giappone e Corea del Sud, sono tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti nello scacchiere Asia-Pacifico, gli unici a mantenere sul loro territorio ampi contingenti e mezzi americani. E anche se ridimensionati, gli Stati Uniti non sono certo attori passivi nelle dispute territoriali emergenti che coinvolgono, in particolare, due aree: quelle che per Pechino sono il Mar cinese orientale e meridionale. Nella prima sono le isole Senkaku/Diaoyu e le Tokdo/Takeshima a essere al centro di contenziosi territoriali; nella seconda le Spratly/Nansha e le Paracel. Un discorso a parte vale per la Corea del Nord, maggiore focolaio di tensione nell’area, che utilizza verso i vicini e gli alleati il ricatto del suo vasto potenziale convenzionale e le velleità nucleari per sostenere la sua dinastia comunista.

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In ambito regionale la Cina è sempre più in una posizione di forza, anche se  non sempre riesce a imporsi. Pragmatismo e necessità pratiche, non più l’ideologia, guidano le scelte internazionali di Pechino. Come conferma Bernard Geoxavier, ricercatore presso la John Hopkins University e specialista delle proiezioni internazionali della situazione interna cinese: «Va ricordato che la controversia con il Giappone sulle isole Senkaku/Diaoyu ha fornito al partito una possibilità di sviare l’attenzione dai problemi interni, ma anche posto i leader nella condizione di confrontarsi in modo intransigente riguardo il contenzioso sulle isole, rivendicandone la sovranità. Per la stessa logica, il confronto con le Filippine o il Vietnam nel Mar Cinese meridionale potrebbe riaccendersi con conseguenze drammatiche se il paese non troverà il modo di cooperare con le nazioni vicine per risolvere le controversie».

Giocare la carta del nazionalismo può essere anche utile ma certamente non contribuisce ad alleggerire il sospetto di molti paesi indispensabili per la diplomazia e l’economia cinesi. Il commercio bilaterale tra Cina e Giappone, seconda e terza potenza planetaria, vale 345 miliardi di dollari e se la Cina è il primo partner commerciale del Giappone, questo è il terzo per la Cina. Nonostante la storia difficile e i frequenti contrasti attuali, tra Pechino e Tokyo c’è una forte interdipendenza che sfiora l’indispensabilità: il Giappone ha bisogno del vasto mercato cinese e della sua classe media per sostenere il suo export; la Cina ritiene ancora indispensabili investimenti e tecnologie giapponesi e il sofisticato mercato nipponico. Tuttavia, per i cinesi, la territorialità delle isole, poco più di scogli o banchi di sabbia circondati però da mari pescosi che nei fondali potrebbero ospitare vasti giacimenti di petrolio e gas, resta centrale e Pechino continua a giocare a rimpiattino con la difesa costiera nipponica come con quella assai più modesta filippina, inviando quasi quotidianamente navi e aerei ai limiti o all’interno di acque isolane che considera proprie.

La mossa di Pechino
A difesa di quelli che ritiene interessi inalienabili, la Repubblica popolare cinese ha fatto lo scorso anno due mosse di rilievo. La prima è stata la consegna alle Nazioni Unite della richiesta formale di attribuzione degli arcipelaghi contesi, dopo avere proceduto a registrarne le coordinate sulle proprie mappe e a dare un nome cinese a tutti i grumi di roccie sparse in quello che considera Mare Nostrum per geografia e storia. La seconda, la creazione di un’Area di identificazione della difesa aerea (Adiz) sul Mar cinese orientale, accusando di “irresponsabilità” i paesi che rifiutano di comunicare i loro piani di volo al controllo aereo cinese. L’iniziativa applicata senza preavviso il 23 novembre scorso ha portato a reazioni contrastanti. Da un lato Giappone e Stati Uniti hanno attuato azioni dimostrative facendo passare propri velivoli militari sopra l’area definita da Pechino e che include le Senkaku/Diaoyu e lo stesso hanno fatto velivoli militari sudcoreani e taiwanesi. Allo stesso tempo, però, Washington e le altre diplomazie regionali hanno accettato il principio della Zona e chiesto alla loro aviazione civile di tenerne conto.

C’è anche una terza mossa che risale al primo gennaio di quest’anno e che riguarda l’imposizione di proprie regole di pesca nel Mare cinese meridionale. Una mossa che secondo Pechino conferma la situazione preesistente e che anche in questo caso non implica limitazioni alla navigazione e alla pesca; ma che non ha convinto Vietnam e Filippine, che hanno aperto un contenzioso formale.

Nel gioco che si va sviluppando ai confini dell’Asia, esiste anche un paese-outsider. La Corea del Nord sorprende per la vitalità del suo regime nonostante la condizione di paria per la maggior parte delle diplomazie globali, l’isolamento reale e la crescente insofferenza cinese verso un alleato sempre più scomodo, che nemmeno il ricordo del conflitto combattuto insieme contro Sud, Onu e Stati Uniti nel 1950-1953 basta più a contenere. Per Pechino la dinastia comunista dei Kim è sempre più un fardello da sopportare (anche se è meglio dello tsunami di profughi che si riverserebbero nelle regioni cinesi in caso di crollo del regime di Pyongyang). I rapporti con la Cina si sono ancor più incrinati nel mese di dicembre, quando il dittatore Kim Jong-un ha fatto eliminare alcuni alti esponenti del partito, tra cui Jang Song-thaek, zio e tutore del leader supremo. La fine di Jang, considerato un interlocutore primario dalla Cina, ha reso ancora più incerti i rapporti con Pechino, isolando ulteriormente e e accentuando la bellicosità della Nord Corea.

Tensione al 38esimo parallelo
Non solo, perché nelle ultime settimane è aumentata anche la tensione a ridosso del 38° parallelo. Con l’enfasi abituale, il portavoce del Comitato per la riunificazione pacifica della Corea (nordcoreano) ha chiesto a «Stati Uniti e Corea del Sud di fermare le pericolose esercitazioni militari che potrebbero spingere la situazione della penisola e dei rapporti Nord-Sud verso la catastrofe». Aggiungendo anche che la Corea del Nord ritiene l’iniziativa «poco meno di un confronto nucleare totale». Dinamiche non nuove, ancor più a fronte dell’irrigidimento della presidente sudcoreana Park Geun-hye, che più volte in campagna elettorale aveva teso la mano al Nord, salvo trovarsi poche settimane dopo l’avvio del suo mandato, il 26 febbraio 2013, davanti all’ennesima crisi con minaccia di cannoneggiamento contro Seul, lancio di tre missili sperimentali e chiusura di ogni dialogo in corso.

Le tensioni in questa regione sono dovute anche al continuo gioco a rimpiattino tra Giappone e Cina sull’arcipelago conteso di Senkaku/Diaoyu. A inizio gennaio, con una mossa certamente destinata ad aggravare i contrasti con Repubblica popolare cinese e Corea del Sud, Tokyo ha deciso di indagare sull’appartenenza di 280 isole e isolotti in regioni periferiche delle sue acque territoriali e di registrarle come proprie. Un passo che in un contesto diverso sarebbe apparso del tutto legittimo, ma in queste aree marittime assume il significato di un’ulteriore provocazione.

Dare il nome alle isole non è solo un gioco intellettuale o burocratico. Non per l’orgoglio cinese, almeno. Le Senkaku/Diaoyu sono infatti registrate sulle mappe cinesi dal XIV secolo. Incluse anche successivamente sulle rotte che percorrevano i vascelli carichi di tributi inviati dai sovrani delle Ryukyu all’imperatore cinese durante le dinastie Ming e Qing. Perfino il geografo giapponese Hayashi Shihei, in una sua mappa del 1785, le include con i loro nomi cinesi come parte del Celeste Impero. Il sospetto è che la decisione del governo di Tokyo di acquisire a fine 2012 dal privato che le possedeva quattro isole non ancora parte del demanio, scatenando la fase più acuta di crisi nei rapporti bilaterali, sia dovuta al timore che una rivendicazione cinese sulle Senkaku, se accettata, avrebbe potuto aprirne una verso Okinawa.

La posizione di Washington
Nel settembre dello scorso anno il diplomatico a capo della politica americana in Asia orientale, Kurt Campbell, ha definito le Senkaku sotto amministrazione giapponese e quindi coperte dal trattato sulla sicurezza che impegna Washington a difendere l’alleato giapponese in caso di attacco. Allo stesso tempo, Campbell, mentre ribadiva che gli Stati Uniti «non prendono posizione sulla sovranità ultima delle isole», rinnovava l’invito a una soluzione diplomatica del contenzioso tra Tokyo e Pechino, segnalando come la situazione potrebbe danneggiare la pace e la stabilità della regione.

Oggi il vincolo più forte a manifestazioni concrete, interventiste o espansioniste del rinascente nazionalismo nipponico viene dall’interno del paese, dall’articolo 9 della sua costituzione che resta in vigore anche se assediato. In un paese pacifista per legge, le Forze di autodifesa impiegano 250 mila professionisti, sono potentemente armate, tecnologicamente all’avanguardia, fucina di tecnologia pronta all’esportazione qualora passasse la modifica costituzionale che è tra le priorità del premier Shinzo Abe. L’accordo sollecitato da Ankara per fornire motori Mitsubishi ai nuovi carri armati pesanti turchi è significativa del “nuovo corso” nipponico. E il fatto che i tank sarebbero coprodotti con i sudcoreani segnala anche come i rapporti tra i due vicini estremo-orientali siano forse tesi ma ben lontani dalla rottura.

È comunque la Repubblica popolare cinese a creare i maggiori problemi al paese del Sol Levante. Da un lato il premier Shinzo Abe segnala il rapporto con Pechino come «uno dei più importanti per il Giappone» e insiste per il dialogo, dall’altro non nasconde la preoccupazione per la crescente forza militare cinese. «Ci troviamo davanti a un vicino le cui spese militari sono almeno doppie delle nostre e seconde soltanto a quelle americane. La Cina ha aumentato le sue spese militari, in modo tutt’altro che trasparente, di oltre il 10 per cento all’anno negli ultimi due decenni», ha ricordato Shinzo Abe in un discorso a New York nel settembre 2013.

Il paradosso di Pyongyang
Potrebbe la situazione sfociare in conflitto aperto? Le potenzialità di uno scontro tra Giappone e Cina sono limitate dagli interessi comuni e dal comune impegno internazionale, con Pechino sempre più intenzionata a dare un’immagine di autorevolezza e ragionevolezza, di fermezza e rivendicazioni storiche e Tokyo a compattare il paese verso un rilancio economico e di ruolo globale. Uno scontro scaturirebbe probabilmente da un incidente e sarebbe delimitato dalle sue stesse prospettive, anche per il futuro dei paesi coinvolti. Più possibile, ma allo stesso tempo più limitato nei rischi di escalation, è uno scontro inter-coreano con il coinvolgimento degli Stati Uniti.

Il paradosso, in questo caso, è che un regime forte a Pyongyang garantisce stabilità alla regione. Mentre molti si augurano che il sistema crolli, tutti temono che una crisi possa far detonare un conflitto che, anche portato solo con le armi convenzionali da parte di uno degli apparati militari più potenti del continente e quarto come effettivi al mondo, potrebbe devastare il Sud prima dell’inevitabile sconfitta.

Tags: asiaCinacoreacorea del nordcorea del suddavosgiapponeGuerra Mondialekim jong unnazioni unitenord coreaONUparacelpechinopyongyangsenkaku diaoyuseulShinzo AbeStati Unitisud coreatokyoUSAworld economic forum
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