Lavorando si impara

Ogni artigiano, prima di imparare il mestiere, è stato apprendista

Di Michele Loconsole - Marco Menegotto
11 Novembre 2014

Fare-apprendistatoPer l’artigiano l’apprendistato è una «risorsa preziosa». Perché da sempre rappresenta lo strumento di inserimento stabile dei giovani in azienda e nel mercato del lavoro. Consentendo, inoltre, al datore di offrire una formazione personale, qualificata e continua ai dipendenti. A spiegarlo a tempi.it è Silvia Ciuffini, responsabile della formazione professionale e del settore mercato del lavoro in Confartigianato.

C’è spazio per i giovani apprendisti nel mondo dell’artigianato?
Eccome, gli artigiani hanno un’elevata propensione ad utilizzare questa tipologia contrattuale; lo confermano i dati contenuti nell’ultimo Rapporto sul mercato del lavoro curato dall’Ufficio Studi di Confartigianato. Secondo il Rapporto, infatti, nelle imprese artigiane il ricorso all’apprendistato raggiunge l’11,5 per cento del totale delle assunzioni non stagionali, a fronte di un 8,2 per cento in quelle non artigiane. Gli artigiani, inoltre, dimostrano una maggior propensione ad accogliere giovani in azienda, rispetto ad altri settori dell’economia: nelle imprese artigiane, infatti, gli apprendisti under 25 sono il 76 per cento del totale degli apprendisti; un dato superiore di ben 12 punti rispetto al 63,7 per cento delle imprese non artigiane.

L’apprendistato conviene all’artigiano o presenta ancora troppe criticità?
Per rispondere a questa domanda è bene distinguere tra i tre diversi tipi di apprendistato. L’apprendistato di primo tipo, per esempio, che coinvolge anche ragazzi minorenni, è quello che presenta ad oggi le maggiori criticità: è il meno operativo e soffre della diversità delle normative regionali in materia di formazione professionale. La previsione, poi, contenuta nel decreto Poletti, che lega la retribuzione del lavoratore alle ore di lavoro effettivamente prestate, va nella giusta direzione, ma non è sufficiente da sola ad assicurare una maggiore diffusione di tale tipologia contrattuale.

Per quanto riguarda, invece, le altre tipologie di apprendistato?
L’apprendistato professionalizzante è senza dubbio la tipologia maggiormente utilizzata, soprattutto nelle imprese artigiane e nelle piccole e medie imprese. La riforma introdotta con il Testo Unico del 2011, che ha definito con chiarezza i ruoli spettanti ai diversi attori in campo (Stato, Regioni e parti sociali), rappresenta, certamente, un buon equilibrio. E anche le ultime previsioni contenute nel Decreto Poletti sono positive in quanto sono finalizzate a semplificare e rendere maggiormente fruibile questo contratto per le imprese.
Per quanto riguarda, invece, l’apprendistato di alta formazione e ricerca si tratta ancora di un istituto di “nicchia” per i suoi piccoli numeri ma che presenta un grande valore in termini di innovazione e competitività.

L’Italia può trovare una sua via all’apprendistato, sulla falsariga di quanto già avviene in Germania?
Come dimostra una ricerca Adapt sull’appredistato, il sistema di riferimento non può che essere quello duale tedesco, che grazie alla forte propensione all’alternanza scuola-lavoro di quel Paese presenta un minore mismatch tra domanda e offerta di impiego. Ma anche una maggiore coerenza tra i percorsi scolastici seguiti e la professione svolta e, più in generale, minori difficoltà di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ad ogni modo, se è vero che l’analisi e lo studio delle diverse esperienze che si sviluppano nel contesto europeo è molto importante, ciò non deve, tuttavia, portare a ritenere che la nostra legislazione sia completamente inadeguata. Semplicemente non è vero. La strada da percorrere, dunque, non è quella di importare tout court un modello e svilupparlo in modo uguale in tutta Europa, bensì quella di verificare se gli aspetti positivi di altri ordinamenti possono essere proficuamente imitati e magari inseriti nel nostro contesto nazionale.

Per esempio, cosa dovremmo imitare a Berlino?
Se l’apprendistato, soprattutto quello legato all’istruzione e alla formazione, non riesce a rappresentare uno strumento di sostegno all’occupazione dei giovani, come invece già accade in Germania, le cause non vanno ricercate solo nella disciplina specifica del contratto di lavoro, quanto piuttosto nel più ampio contesto di riferimento rappresentato dal difficile, anzi verrebbe da dire mancato, nesso tra sistema educativo e mondo del lavoro in Italia.
Il modello tedesco, infatti, se ha successo, è proprio perché in quel Paese esiste un forte raccordo tra scuola e lavoro: un raccordo sostenuto attraverso gli strumenti dell’orientamento scolastico, della formazione professionale, dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato.
Nel nostro Paese, invece, da sempre prevale un approccio secondo cui, prima è bene tenere fortemente separato il momento dello studio da quello del lavoro (prima si studia e poi si lavora) e un atteggiamento culturale che sottovaluta la valenza formativa del lavoro, soprattutto del lavoro manuale.

@m_loconsole

@MarcoMenegotto

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