
Obama non rinegozia il trattato con il Bahrein: ci ha già pensato Bush
Colpo di scena: il mese prossimo Stati Uniti e Bahrein non dovranno rinegoziare il trattato di cooperazione militare che permette agli Usa di tenere alla fonda la loro intera Quinta flotta in un porto antistante la costa dell’Iran, ad appena 250 km di distanza. L’accordo fu già segretamente rinegoziato nel 2002 sotto la presidenza di G.W. Bush, e prolungato di cinque anni (fino al 2016) rispetto al decennio di vigenza deciso meno di un anno prima, nell’ottobre 2001. Dunque il trattato non scadrà nell’ottobre prossimo, come tutti pensavano di sapere, ma nell’ottobre 2016: un involontario regalo della presidenza Bush alla presidenza Obama, che avrebbe incontrato non poche difficoltà mediatiche e diplomatiche nel confermare tale e quale il rapporto preferenziale degli Stati Uniti con l’unica monarchia del Golfo coinvolta dai moti della Primavera araba, repressi senza quasi alcuna concessione ai manifestanti e solo grazie all’intervento militare dei paesi vicini: Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
Presidenza e Pentagono al tempo di Bush sarebbero riusciti a mantenere segreto il rinnovo del 2002 perché l’accordo non rappresenta un patto di reciproca difesa, e dunque non abbisognava a suo tempo del voto del Congresso. Non è noto se nel 2002 siano stati introdotti, al di là dell’estensione temporale dell’accordo, nuovi capitoli di cooperazione fra i due paesi. Quel che si sa in base all’osservazione dei fatti a partire dal 1991, l’anno in cui fu firmato il primo trattato di cooperazione militare fra Usa e Bahrein all’indomani della cosiddetta prima guerra del Golfo (quella fra la coalizione capeggiata dagli Usa su mandato Onu e l’Iraq di Saddam Hussein), è che agli Usa sono concesse basi militari nel paese, che possono trasferirvi armamenti e altri equipaggiamenti, che è loro permesso di monitorare le rotte del petrolio nel Golfo Persico e di controllare i movimenti delle forze iraniane; gli americani per parte loro si impegnano ad addestrare le truppe del Bahrein. Altro vantaggio per la monarchia della famiglia Al-Khalifa è che, essendo stato il Bahrein dichiarato già nel 2002 uno dei “principali alleati non-Nato degli Usa,” il paese può ricevere armi americane sofisticate, essere eletto a destinazione di surplus delle forze armate americane (razioni, naviglio, ecc.) e le sue imprese possono partecipare a determinate gare di appalto indette dal Pentagono.
Gli osservatori hanno cercato di spiegare l’estensione segreta del patto in base alle esigenze strategiche americane all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001, ma secondo altri la richiesta di revisione e proroga dei termini sarebbe stata avanzata dalle stesse autorità locali, preoccupate della minaccia iraniana. E qui si potrebbe cercare un collegamento con le proteste che hanno sconvolto il paese a partire dal 14 febbraio scorso: il Bahrein è retto dalla metà del XVIII secolo da una monarchia sunnita, ma il 70 per cento della popolazione autoctona (circa 600 mila abitanti) è di fede sciita ed è esclusa dall’esercito e dalla polizia. Negli ultimi anni gli Al-Khalifa hanno naturalizzato numerosi immigrati da Pakistan, Yemen e Giordania per aumentare l’incidenza della componente sunnita. Esiste un parlamento eletto a suffragio universale dotato di limitati poteri, ma la legge elettorale disegna le circoscrizioni elettorali in modo che gli sciiti non possano vincere più di 18 dei 40 seggi in palio.
I moti popolari iniziati nel febbraio scorso non hanno incontrato la stessa simpatia delle altre proteste e insurrezioni nella regione da parte delle masse arabe proprio a causa del fattore confessionale: i sunniti, che sono maggioritari in tutti gli altri paesi arabi tranne l’Iraq e il Libano, sospettano la lunga manus dell’Iran nella sommossa di un paese popolato in maggioranza di sunniti e collocato a poche centinaia di km dalle coste della Repubblica islamica. Il bilancio delle proteste, che continuano sporadicamemnte fino ad oggi, parla di 36 morti, quasi tutti manifestanti, e 500 persone ancora detenute o già condannate per il ruolo avuto nei disordini. L’unica concessione significativa finora compiuta dal potere è stata di creare una commissione indipendente composta di personalità internazionali per indagare sulle violazioni dei diritti umani avvenute nel corso della repressione delle proteste.
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