Non si può più dire niente? L’alternativa tra condannare e condonare

Di Emanuele Boffi
16 Agosto 2022
Negli atenei britannici si leggono Shakespeare e Chaucer con "l'avvertenza" che possono turbare. Ma la cancel culture non è solo una questione di libertà di parola
Michelle Pfeiffer in Sogno di una notte di mezza estate, film del 1999 tratto dall'omonima opera di William Shakespeare
Michelle Pfeiffer in Sogno di una notte di mezza estate, film del 1999 tratto dall'omonima opera di William Shakespeare

Già a Caorle ci chiedevamo se “non si può più dire niente” e la domanda ritorna dopo il lungo articolo del Times – ripreso in Italia da Repubblica – che ha evidenziato come nelle università britanniche alcuni libri siano sconsigliati perché potrebbero urtare la sensibilità degli studenti.

Questa volta si tratta de La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead per le sue vivide descrizioni della vita degli schiavi (e pazienza se l’intento del Premio Pulitzer era proprio quello di far capire cosa fosse lo schiavismo), o La signorina Julie di August Strindberg per «i dialoghi sul suicidio», o Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare per «il classismo», o Oliver Twist di Charles Dickens per le scene in cui sono abusati i minori, e addirittura il padre della letteratura inglese Geoffrey Chaucer. Ma la lista non è finita: nel mirino dei censori sono finiti anche Jane Austen, Charlotte Bronte e Agatha Christie.

Libri “pericolosi”

La motivazione è sempre la stessa: queste opere contengono storie o immagini che potrebbero turbare la sensibilità di chi le affronta e a nulla vale la semplice constatazione che proprio la scuola (una università per di più) dovrebbe aiutare a comprendere il contesto storico e l’intento narrativo degli autori. Niente, l’ideologia è più forte e così i libri vengono fatti sparire o sconsigliati o, comunque, presentati con l’apposita pecetta che avverte dei loro contenuti “pericolosi”.

La vicenda non è nuova ed è ormai da anni che le università – soprattutto inglesi e americane – conducono questa strampalata battaglia in nome del politicamente corretto e della cancel culture. Ciò che non può essere sopportato non va studiato o storicizzato: va semplicemente cancellato, bannato, anestetizzato, sia che si tratti di Shakespeare o di Winston Churchill, le cui statue sono state infatti abbattute, o di J.K. RowlingKathleen Stock, cui si vuole negare il diritto di parola, perché dicono cose “sconvenienti” (tipo che “una donna è una donna”).

Regimi di verità

Aveva certamente ragione Douglas Murray a scrivere nel suo La pazzia delle folle che quando nel discorso pubblico sono scomparse tutte le grandi narrazioni «si sono fatte spazio le loro caricature», ma è anche vero che queste “caricature” non sono innocenti, ma funzionali a un ben preciso modo di intendere la realtà e la vita.

Lo ha riconosciuto su Repubblica un intellettuale non certo sospettabile di simpatie conservatrici come Corrado Augias che, commentando l’inchiesta del Times, ha scritto: «Il ruolo della narrazione cioè l’uso di corrette modalità di comunicazione prevale sulla sostanza dei problemi soprattutto negli ambienti che si definiscono “di sinistra” come se non esistessero più fenomeni sociali oggettivi ma solo “regimi di verità” generati dal linguaggio».

Non è solo questione di libertà di parola

“Dare un nome alle cose” significa esercitare un potere su di esse. Eliminare certi libri, certe loro descrizioni, certe parole significa affermare un dominio, decidere cosa si può dire e cosa no in base a un proprio progetto egemonico.

La cancel culture – di cui parliamo così spesso su Tempi – in verità non è un fenomeno nuovo. Come spiegò il filosofo francese Rémi Brague in una splendida lezione tenuta nel settembre 2021 a Milano, in realtà ogni cultura ha più o meno “cancellato” – al fin dei conti, invano – quella cui si è sostituita dominandola. Certo, ognuno lo ha fatto in grado diverso (tra comunismo e cristianesimo c’è una differenza!), ma il punto interessante da rilevare è che il discorso è un po’ più ampio e profondo della semplice “libertà di parola” cui, di solito, tutti si riferiscono.

Condannare o condonare

La questione, infatti, come diceva Brague è che fenomeni come quelli della cancel culture si basano sul «risentimento, e persino l’odio» e dunque la vera alternativa non è tra poter dire tutto / non poter dire niente, ma tra condannare e condonare.

La prima è una posizione mefistotelica (e tanto più è «morbida, tanto più è efficace»): «Secondo Satana – diceva Brague -, tutto ciò che esiste è colpevole e deve scomparire».

La seconda è più difficile, perché ognuno di noi sa che ciò che proviene dal passato non è mai del tutto innocente, ma è proprio perché sappiamo che ogni atto umano può essere redento e salvato, che abbiamo verso i nostri simili sentimenti di comprensione (“comprensione” nella sua doppia sfumatura sentimentale e razionale). Condonare, appunto, così come siamo stati condonati.

Parafrasando la frase di Brague dovremmo dire che tutto ciò che esiste è salvabile e deve essere conservato.

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