Ieri quasi due milioni di persone a Parigi, e quattro in tutta la Francia, si sono riunite attorno allo slogan “Je suis Charlie”, io sono Charlie. Milioni di persone hanno camminato insieme per condannare l’attentato di Chérif e Said Kouachi, i due fratelli che mercoledì hanno ucciso 12 persone attaccando la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo «per vendicare il profeta Maometto». Insieme a loro, è stato condannato anche il gesto di Amedy Coulibaly, che ha ucciso quattro ostaggi ebrei e una poliziotta nella capitale, «istruito dallo Stato islamico».
«SONO I NOSTRI EROI». Non tutti però hanno scandito lo slogan “Je suis Charlie”. Molti, sempre a Parigi, hanno invece preferito “Je suis Kouachi” e “Je suis Coulibaly”. E non sui social network, dove ogni sciocchezza è permessa, ma per le strade del sobborgo parigino di Gennevilliers, dove i giovani francesi Kouachi sono cresciuti e si sono radicalizzati. «Oggi non andiamo a marciare perché i Kouachi sono i nostri eroi locali», dice un ragazzo barbuto sulla ventina al Telegraph. «Oggi celebriamo quello che hanno fatto. Voi siete scioccati, ma ascoltate noi. I miei genitori sono venuti dall’Algeria e noi non abbiamo dimenticato come gli algerini sono stati gettati giù dai ponti di Parigi».
«NON CHARLIE, SIAMO KOUACHI». Nell’episodio del 1961, ricordato dal giovane, circa 200 algerini vennero uccisi dalla polizia della capitale. Il giovane franco-algerino, però, non è l’unico a sostenere gli assassini: «Io posso anche non essere d’accordo con la violenza», concede un secondo. «Ma capisco perfettamente perché l’hanno fatto. Noi apparteniamo a questo Paese, parliamo francese, ma qualunque cosa facciamo, saremo sempre estranei. Nessuno ci mostra rispetto». Un terzo giovane grida: «Noi non siamo Charlie. Noi siamo Kouachi!».
MINUTO DI SILENZIO. La forza apparente dei valori di “Liberté, egalité, fraternité” sbandierata in centro a Parigi, nelle periferie perde tutto il suo vigore. Come spiega Marie-Thérèse, che insegna ai ragazzini del quartiere dei fratelli Kouachi: «I ragazzi giovedì non volevano osservare il minuto di silenzio per il massacro di Charlie Hebdo. Molti hanno cominciato a gridare, uno mi ha detto che avrebbe voluto avere un kalashnikov per uccidermi. Io lavoro in una scuola difficile di un quartiere difficile, ma la stessa cosa è successa in molte altre scuole. Tantissimi ragazzi a cui insegno potrebbero essere facilmente radicalizzati».
«ALLAHU AKBAR». Forse lo sono già. Così come lo sono già i detenuti di tante carceri che, secondo il Le Figaro, giovedì hanno osservato in modo particolare il minuto di silenzio: «Allahu Akbar», si è sentito gridare in decine di celle dai detenuti come gesto di sfida verso una République nella quale non si riconoscono.
«MEGLIO IN ISRAELE». La comunità ebraica sfilata da Place de la République a Place de la Nation è d’accordo su un punto: «Se ci fosse stata solamente la presa di ostaggi all’Hyper cacher venerdì, e non l’attentato contro Charlie Hebdo mercoledì, oggi ci sarebbe stata una simile insurrezione repubblicana?», si interrogano Michel e Martine Zeitoun. «La risposta è no. E l’abbiamo già visto: i francesi non si sono mobilizzati così dopo gli attentati di Tolosa perpetrati da Mohamed Merah (il franco-algerino musulmano che uccise tre paracadutisti e tre bambini ebrei, ndr)».
Brigitte Lévy, 56 anni, denuncia l’antisemitismo che serpeggia nel Paese e parla della possibilità di andarsene: «Non riconosco più la Francia. Sono francese da tante generazioni, ma non so se restare o andarmene. In Israele c’è la guerra, ma sarei più protetta. In Francia il governo è troppo lassista, ha lasciato che certe cose accadessero».