
Nessuna “storia di libertà”, il mercato delle surrogate ucraine è una tragedia

Avessero almeno il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, o di scriverle nude e crude: «Crediamo nei soldi, nella tecnica e nella libertà di vendere e comprare carne umana. In regalo il cloroformio per anestetizzarvi il cervello». E invece no, alla Stampa trafficano ancora titoli pelosi per spacciare quale cosa buona e giusta l’acquisto di neonati come fossero scatolette di alici, buono e giusto ritirarli alla fine della catena di montaggio per amarli e onorarli come micetti salvati dal gattile.
La differenza tra “dibattito” e bolla di Twitter
Da qualche tempo La Stampa chiama “dibattito” ogni intruglio offerto da costume e cronaca alimenti lo psicodramma quotidiano delle bolle Twitter: e l’indifferenza sessuale, e il sessismo, e il pride dell’antimaternità, e la ola per chi si ammazza col suicidio assistito, e i bollori per la generazione “consapevole” che sogna le carriere alias e un mondo green e a cui attribuire tutto quello che pensano gli adulti ecologisti e gender fluid. Contenti loro.
Quando però , invece della solita ciancia generazionale firmata dallo scrittore di turno su clima, covid, sesso, fine vita, sotto alla pecetta “dibattito” leggiamo questo titolo, «Le madri surrogate ucraine non sono vittime. Molte di loro raccontano una storia di libertà», noi cinici, incompetenti, calcolatori, insomma noi trogloditi rimasti all’età della pietra, ci chiediamo: ma nemmeno il coraggio di chiamare le cose con il loro nome?
Strumentalizzare la tragedia dei figli della surrogata
Derubricare i dissidenti dell’utero in affitto a marmaglia oscurantista, cristianista, in generale omofoba e nel caso particolare putinana: è la mica tanto sottaciuta tesi della Stampa che riesce a strumentalizzare la tragedia dei figli della surrogata bloccati in un bunker di Kiev per giocarsi il ben serio paradigma della libertà dell’Ucraina «che Putin mira a cancellare in nome di un ritorno ai valori tradizionali», invitandoci ad allargare lo sguardo e su tutti i sacrifici fatti dalle donne per consentire un futuro migliore ai propri figli. Del resto che differenza c’è tra prendersi cura di bambini e anziani in Italia o fare figli per conto terzi? Tutto, spiega il Premio Strega Helena Janeczek, ha concorso al «progresso del paese».
Allargare lo sguardo per non ridurre le cose a come stanno: per la scrittrice tedesca naturalizzata italiana affatto nuova agli interventi sulla “Gpa” (l’acronimo più amato dalla Stampa per non parlare di utero in affitto) non si può ridurre una tragedia allo schema “di qua i ricchi occidentali, di là le povere ucraine”, e per non ridurre «nessun essere umano a merce o funzione o puro bios, bisogna tenere conto della loro soggettività e conoscere le loro storie». Mica fare del “maternalismo”, pensando che donne impossibilitate ad avere figli propri non ameranno alla follia quelli commissionati, o che donne che conciliano la quotidianità con la gestazione per altri per «migliorare il tenore di vita della famiglia» non siano felici e libere di farlo .
Ma che c’entra la felicità degli adulti?
Qui nessuno ha vinto il Premio Strega, ma che c’entra la felicità degli adulti? Che c’entra l’amore col procurare intenzionalmente e per contratto la stessa ferita che per disgrazia o fatalità sente bruciare anche il più amato dei figli adottati? E la storia della bambina dal nome di fata? Dicevano non conta la tecnica ma l’amore, e così una bambina prodotta con i gameti di una donna, portata in grembo da un’altra, cresciuta da un’altra ancora, rifiutata da quella che aveva innescato la procedura era stata abbandonata a Kiev per 15 mesi.
E quella di Bridget? L’ha ritrovata alla Sonechko Children’s Home di Zaporizhzhya una giornalista dell’Abc dopo averla cercata per sei mesi: partorita da una donna di Donetsk, era nata prematura e rimasta disabile, il suo fratello gemello morto, la coppia americana che l’aveva ordinata aveva deciso di non ritirarla. Anzi, a quella bambina disabile aliena ai loro desiderata avevano deciso di interrompere i trattamenti che la tenevano in vita ma nessuno aveva dato seguito alla loro richiesta; il garante dell’infanzia stima decine di altri bambini nella sua stessa situazione, scartati dai committenti.
Le storie di Liudmyla e Tetiana
E la storia di Liudmyla? Mentre si celebrava la cerimonia di “consegna figli” scintillanti come coppe e premi alla tenacia dei genitori-committenti sotto i lampadari della sala ricevimenti dell’hotel Venezia di Kiev, dove 125 neonati nuovi di zecca erano rimasti intrappolati dal lockdown, mentre si riprendevano i baci, i selfie, suonavano gli inni nazionali protetti dal filo spinato, a molte miglia di distanza la povera Liudmyla aspettava il saldo per la gravidanza di una bambina consegnata a una coppia tedesca mesi prima, la seconda. La prima gravidanza per conto terzi l’aveva passata in terapia intensiva ma le servivano soldi per una casa per sé e i suoi figli.
Come Tetiana: quattro embrioni avevano iniziato a vivere nel suo ventre ma i committenti un bambino avevano ordinato e un bambino avrebbero portato a casa. Sette mesi dopo il parto, qualcuno in più dall’aspirazione di tre bambini su quattro, Tetiana venne devastata da un cancro alla cervice uterina, le amputarono una gamba e fu la prima delle surrogate al soldo della Biotexcom che avevano dovuto subire isterectomie a far partire indagini contro la clinica.
Ormoni, fughe e figli “difettosi” rifiutati
E le storie raccolte dalla ong Strenght of mothers, quelle delle donne obbligate per contratto a impianti di embrioni continui per un anno intero prima di riuscire a restare incinte, o degli avvocati de La Strada Ucraina che ricevono un centinaio di telefonate all’anno da madri devastate dalla vendita dei bambini portati in grembo o dagli ormoni assunti a quintali per migliorare le possibilità di restare incinta? Qualcuna ha anche tentato la fuga, provando a nascondersi con il figlio partorito per non separarsene. Qualcun’altra ha adottato il piccolo rifiutato da committenti all’ultimo momento perché “difettoso”.
Scrive Janeczek che in quel paese e in questa situazione assurda «ogni discorso normativo – il contratto, la legge, la posizione di principio – si scontra con la contingenza e la singolarità dei corpi, delle vite, delle storie». Eppure è proprio ascoltando quelle storie è chiaro che nessuna legge che trasformi il diritto in un grottesco strumento di abuso da parte di chi ha il portafoglio pieno potrà edulcorare le distorsioni di un mercato costruito sulla barbarie dell’utero in affitto, il desiderio del committente, il bisogno della surrogata, il figlio da consegnare come una medaglia al merito nella sala da ricevimento di un hotel protetto da filo spinato, o intrappolato in un bunker mentre cadono le bombe.
Ma quale libertà, stiamo parlando di mercato
Quanto ai titoli pelosi e un po’ sciacalli della Stampa per elogiare la surrogata quale spazio di libertà in Ucraina e mettere a reddito la vita umana, trattando i neonati alla stregua di linee di prodotto per la felicità degli adulti: possiamo anche capire che nemmeno in guerra contemplino una tregua allo sputazzo degli straccioni oscurantisti, e che per un articolo di Lucetta Scaraffia sui «poveri bambini dispersi dal mercato degli uteri» ce ne voglia uno che chiarisca che chi li mette al mondo è libero (cioè non è schiavo). Ma quando si compra o cede un essere umano stiamo parlando di mercato. Non se ne esce con le trappole semantiche, tanto meno a lustrare le scarpe dei mercatari chiamando quello sulla vendita dei neonati e la schiavitù consenziente dei corpi “dibattito”.
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