A febbraio il Pentagono aveva promesso che «ad aprile o maggio» sarebbe partita la campagna militare per riprendere la città di Mosul. Invece è lo Stato islamico che domenica si è mangiato un altro pezzo di Iraq. E non un pezzo qualunque, ma la città di Ramadi, capitale della provincia più grande del paese, quella meridionale di Anbar, a soli 100 chilometri di auto da Baghdad.
RAMADI NON È MOSUL. Com’è possibile? Quando nel giugno del 2014 l’Isis è riuscito a conquistare Mosul, la seconda città più importante dell’Iraq, tutti avevano parlato della debolezza del governo di Al-Maliki , delle divisioni settarie all’interno dell’esercito, della mancanza di appoggio internazionale, dell’equipaggiamento misero, dell’assenza di una strategia convincente, eccetera eccetera. Oggi, a un anno di distanza, è cambiato il governo, gli Stati Uniti equipaggiano e addestrano l’esercito iracheno, gli aerei della coalizione militare guidata da Barack Obama hanno bombardato le postazioni dello Stato islamico circa 3.200 volte in nove mesi. Solo nell’ultimo mese, a Ramadi ci sono stati 170 raid.
«NON CONTANO I SOLDI». Eppure l’Isis ha vinto lo stesso e tutto il mondo ha visto il video dell’esercito iracheno che scappa dai terroristi islamici. Perché? «Non importa quanti miliardi di dollari spendi, non puoi comprare l’esperienza. Non puoi comprare la fedeltà. Non puoi far comparire queste cose dal nulla», dichiarava l’anno scorso il tenente americano Dave Jackson commentando la caduta di Mosul. «Erano destinati a fallire fin dall’inizio».
«ESERCITO MALE EQUIPAGGIATO». Questo problema persiste ancora, ma ce ne sono altri. La battaglia di Ramadi va avanti da oltre un anno e il problema non è stato creato da un attacco improvviso. «La colpa è del governo e delle autorità locali», ha detto domenica un capo della polizia irachena al Guardian, appena fuggito da Ramadi. «L’esercito non ha spirito combattivo. Aspettavano l’attacco dell’Isis. Sono equipaggiati male rispetto all’Isis. Noi combattiamo con le pistole, mentre loro hanno gli Humvees, i IED (ordigni esplosivi improvvisati, ndr) e i kamikaze».
SUNNITI-SCIITI. C’è un altro problema: la divisione del paese. Il nuovo premier Al-Abadi, per quanto cerchi di non dividere l’Iraq tra sunniti e sciiti, ha fatto affidamento principalmente sulle milizie sciite e l’Iran per sconfiggere lo Stato islamico. A Tikrit, come si è visto, alla fine ha funzionato e forse potrebbe funzionare anche per la riconquista di Ramadi. Ma il primo ministro è colpevole di non aver aiutato le tribù sunnite della provincia di Anbar, che hanno invano chiesto per difendersi aiuto e armi al governo, il quale ha rifiutato nel timore che i sunniti stessero facendo il doppio gioco allo scopo di unirsi ai terroristi islamici.
NESSUNA SPERANZA? «Siamo stanchi, vogliamo la pace, vogliamo vivere ma il governo è guidato da gente ignorante, da ladri», ha dichiarato un leader tribale sunnita, come riportato dal Washington Post. «Non vogliamo qui le milizie sciite. Se arriveranno, non le combatteremo ma siamo contro di loro. Sono una milizia etnica che ci tratterà male». Alla luce di queste parole, potrebbe risultare vera la rassegnata analisi del diplomatico americano Peter Galbraith al Daily Beast: «Le mancanze dell’esercito iracheno non possono essere corrette perché riflettono la realtà della società».
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