![Vulnerabilità come risorsa](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2025/01/vulenrabilita-345x192.jpg)
![Vulnerabilità come risorsa](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2025/01/vulenrabilita-345x192.jpg)
Quando Giuseppe sente per la prima volta questo versetto del profeta Geremia, non è più di un ragazzino, ma gli entra in testa e lo divora come un tarlo. Dal primo momento in cui ascolta il sacerdote leggere quel passo delle Lamentazioni, decide che sarebbe diventato un missionario. E per il resto dei suoi giorni quelle parole lo accompagnano per migliaia di chilometri, svariati continenti, diverse civiltà. «San Giuseppe Freinademetz, in pochi lo conoscono. Ed è anche questo un merito del Meeting: svelare l’esistenza di uomini straordinari ma rimasti inspiegabilmente nell’ombra», dice il professore Elio Sindoni, curatore della mostra dedicata al santo che sarà presente nel padiglione A5. «Anche io l’ho conosciuto per caso, qualche anno fa mentre ero in vacanza in Val Badia. La sua vita si addice perfettamente al titolo di questo Meeting. È nato nel 1852 in un piccolo paesino di periferia, Oies, Alta Badia, ed è morto nel 1908 in quella che allora era considerata un’estrema periferia del mondo: la Cina».
Oies, 1852. All’epoca, ma anche oggi, non si poteva nemmeno parlare di frazione. Insediamento è la parola giusta: oggi ci sono dieci case. Cinque quando Giuseppe vi è nato. Quarto di 13 figli, la sua famiglia vive grazie all’agricoltura e all’allevamento. L’unica cosa che abbonda in quella casa è la fede. Si prega ogni giorno: per la famiglia, per il raccolto e per il bestiame. E poi per i sofferenti, i defunti, gli amici. Per tutti c’è una preghiera. Anche per gli sconosciuti bisognosi in ogni angolo del mondo. Rispetto ai fratelli Giuseppe ha un dono: è particolarmente intelligente. Grazie a un amico tessitore, i genitori decidono di mandarlo a studiare. Fin da piccolo Giuseppe è costretto ad abbandonare la sua amata famiglia. Undici ore di cammino lo separano dal liceo ginnasio di Bressanone. La lingua tedesca all’inizio è un ostacolo. Ma Giuseppe ha davvero una marcia in più: la impara in fretta, si diploma e passa al seminario. È qui che rimane profondamente scosso dalle parole del profeta Geremia ed è proprio in quell’istante che capisce la sua vocazione: quello che ha incontrato nella sua famiglia e che sta approfondendo in seminario non può essere solo per lui. Deve fare conoscere Cristo a tutti, nessuno escluso. Il 25 luglio 1875, all’età di 23 anni, è ordinato sacerdote.
I primi anni è assegnato in una piccola parrocchia vicino a casa. Giuseppe è felicissimo, genitori, amici e parenti gli sono accanto e i bambini hanno un debole per lui. Con Ujöp, così lo chiamano in paese, loro imparano a leggere e scrivere. Ma il tarlo della missione non molla Giuseppe nemmeno in quei momenti così felici e, dopo soli due anni di ministero, si congeda dalla popolazione della sua amata valle per rispondere a un appello della congregazione dei Verbiti che cercava nuovi missionari per evangelizzare il mondo. Parte per Steyl (Olanda) per prepararsi alla nuova vita, ma il distacco, se pur desiderato, è doloroso. Lo si capisce in una lettera che scrive ai suoi famigliari.
«Ben pesante era nel mio cuore (…) ove dovetti distaccarmi da Voi miei cari, per andar in un paese lontano e conosciuto nient affatto. Ma appena che io mi vidi solo a Innsbruck e abbandonato da tutto il mondo come un orfano, subito sentii anche la verità di quelle parole che mi disse un buon amico: Quanto più si è lontani e tralasciati dagli uomini, tanto più si è vicini a Dio. Provai una certa allegrezza e consolazione nel cuore, che mi disse, tu hai abbandonato tutto per Dio e Dio non ti abbandonerà» (Steyl, 29 agosto 1878)
Solo un anno dopo, nel 1879, dal porto di Ancona salpa con un battello diretto in Cina, per adempiere alla sua vocazione. Prima di partire, però, passa un’ultima volta da casa per salutare la famiglia. Non li rivedrà mai più. La perpetua del paese, prima di lasciarlo andare, gli taglia un ciuffo di capelli: oggi quella ciocca è l’unica reliquia esistente di san Giuseppe Freinademetz. Il viaggio dura 35 lunghissimi e faticosissimi giorni. Il dolore per il distacco è sempre tremendo, ma la certezza del suo compito è salda.
Il primo approccio con la gente di Hong Kong non è facile. Ancora una volta nelle parole di Giuseppe si percepisce un grande dolore. Eppure ogni lettera che il sacerdote scrive a parenti e amici termina sempre con un ringraziamento a Dio per avergli concesso di vivere quella fatica.
«Or qua Hong Kong non trovo danzi no più bella Badia e non la troverò anche più, finché andremo insieme a cercar nostra vera patria sopra le stelle. Invano cercherei qui mia casa paterna Oies, senz’altro il più bel luogo del mondo; e quello che mi pesa di più, invano cercherei anche qui mio Padre, mia Madre, Fratelli e Sorelle e tanti buoni amici, che sono al di là del mare, e questo pensiero mi farebbe ben caldo, se non sapessi, che non sono qui per caprizzio o per guadagnare oro o argento, ma per guadagnare anime, comperate col sangue preziosissimo d’un Dio, per menar guerra contro il diavolo e l’inferno, per gettar a terra i tempi dei Dei falsi, per impiantar in lor luogo il legno della Croce, per far conoscere ai poveri pagani, che pure sono nostri fratelli, l’amor d’un Dio crocifisso (…); se penso a questo io non potrò mai ringraziar a Dio degnamente di avermi menato in China» (Hong Kong, 28 aprile 1879)
La certezza del valore di quello che ha da comunicare non lo fa desistere. Nemmeno il cinese lo scoraggia: come con il tedesco, in due anni impara a parlare e a scrivere così da poter condividere da vicino usi e costumi della popolazione. «Noi dobbiamo testimoniare Cristo ai popoli, gettare il suo seme, il resto lo lasciamo a Dio», scrive in una lettera alla famiglia. Fa suo il motto di san Paolo “greco tra i greci” che diventa “cinese tra i cinesi” e parte per raggiungere nuovi villaggi. Percorre migliaia di chilometri a piedi, a cavallo e in canoa con una sola preoccupazione: portare Cristo al maggior numero di persone. Un’ansia dolorosa lo spinge a pregare continuamente per tutti, a lavorare senza pausa, a essere sempre in cammino per visitare i gruppi cristiani, per portare a tutti l’annuncio della salvezza, il conforto della fede. Chi lo ha conosciuto ha detto di lui che era l’incarnazione della bontà, per questo riusciva a conquistare la stima e l’affetto della gente. Non sono stati pochi a incontrarlo in quel remoto Oriente. I numeri riportati in una delle ultime missive sono impressionanti.
«Cominciammo qui la Missione con 158 cristiani vecchi, adesso ne abbiamo in vita 40.000 battezzati e 40.000 catecumeni, che si preparano al battesimo (…) non computando migliaia di bambini dei pagani, che nascostamente si battezza in pericolo di morte. Una bella raccolta d’anime (…), è gran consolazione in mezzo a tante tribolazioni della vita da missionario» (13 dicembre 1907)
E sempre dalle parole del missionario si capisce l’adorazione per la sua comunità: «Amo la Cina e i cinesi, sarei pronto a morire mille volte per loro». Non ci è andato lontano. All’inizio del secolo, durante le persecuzioni dei Boxer, le missioni vengono duramente attaccate, i missionari trucidati. Giuseppe stesso, più di una volta, è stato pestato, torturato, preso a bastonate. Ma sempre è sopravvissuto: se doveva morire, non poteva essere per mano cinese. Il duro lavoro e i continui viaggi presentano il conto nel 1898: ammalato alla laringe e con un principio di tisi, dietro insistenza del vescovo Giuseppe parte per il Giappone nella speranza di recuperare la salute. Vi rimane un mese, ma non è tempo perso: si riposa e allo stesso tempo getta il seme di Dio. I suoi frutti, vedremo, col tempo fioriranno.
Grazie ai rapporti che Freinademetz mantiene con parenti e amici, in Italia si apre la causa di beatificazione. Serve un miracolo. C’è. Un ragazzino di Oies malato di leucemia sta morendo. I familiari chiedono l’intercessione di Giuseppe Freinademetz e il giovane, inspiegabilmente, guarisce. Il 19 ottobre 1975, Paolo VI lo proclama beato. Poco dopo inizia il processo di canonizzazione. Serve un altro miracolo. C’è. Accade a un giovane giapponese che vive nel piccolo villaggio dove Giuseppe aveva trascorso i trenta giorni di riposo per guarire dalla tubercolosi. Anche lui è malato di leucemia e i medici non gli hanno dato speranza di vita. Ma anche in questo caso, parenti e amici pregano il beato di Oies e il ragazzo guarisce. Il 5 ottobre 2003, Giovanni Paolo II dichiara santo Giuseppe Freinademetz, il missionario che dalle periferie della Val Badia ha portato Cristo nelle estreme periferie della Cina.
I commenti sono chiusi.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!
Una breve notazione per chi, con stupore, dovesse chiedersi per quale ragione don Giuseppe non conoscesse il tedesco.
La ragione è semplice: era un ladino e cioè parlava una lingua romanza, molto vicina all’italiano.
Per questa ragione la sua lingua madre colta era l’italiano e non il tedesco.
Val Badia e val Gardena sono due valli ladine germanizzate – passatemi la sintesi, necessariamente imperfetta – a forza.
Oggi la germanizzazione è quasi completa: ero in val Gardena la settimana scorsa (sono trentino) e notavo appunto quanta strada, anche nell’Italia attuale, abbia fatto la germanizzazione dei ladini dell’Alto Adige.
La tutela delle radici ladine è più floklore che realtà…