Mannino: «Ma quale Stato-mafia, sono vittima di un intrigo durato ventotto anni»

Di Ermes Antonucci
30 Settembre 2019
L'ex ministro Dc parla per la prima volta dopo l'ultima assoluzione al termine di un processo infamante e infinito. «Si sono portati via la mia vita»
Calogero Mannino

Articolo tratto dal numero di settembre 2019 di Tempi.

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La sua odissea giudiziaria dura ormai da più di un quarto di secolo, da ventotto anni per la precisione, cioè da quando nel 1991 venne mossa per la prima volta nei suoi confronti l’infamante accusa di essere vicino alla mafia. È stato indagato, sbattuto in carcere, processato, ma alla fine è sempre stato assolto da ogni accusa. Nel frattempo, però, la sua vita è stata stravolta.

L’ultima assoluzione per Calogero Mannino, esponente di spicco della Democrazia cristiana e cinque volte ministro nella Prima Repubblica, è giunta lo scorso 22 luglio, nel processo di appello sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Prima ancora era stato assolto in via definitiva dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo l’ennesimo verdetto a suo favore non ha rilasciato dichiarazioni pubbliche. Ha preferito il riserbo, la riflessione, come a metabolizzare l’ultima vittoria ottenuta nel corso di questa lunga e incredibile persecuzione giudiziaria. Dopo aver compiuto ottant’anni (il 20 agosto) ha accettato di affidare a Tempi i suoi primi pensieri.

Onorevole Mannino, come ha accolto la sentenza di appello del processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, che ha confermato l’assoluzione nei suoi confronti?

Il mio stato d’animo è sempre stato serenamente ispirato al positivo. In modo particolare, avevo la coscienza tranquilla per non avere minimamente tenuto alcun comportamento riconducibile alle fantasiose accuse dei pubblici ministeri, per la consapevolezza dell’abbaglio in cui si stavano cacciando e per la convinzione che si trattasse di un nuovo capitolo di un intrigo.

Questa ennesima assoluzione non cancella una persecuzione giudiziaria che dura da ben ventotto anni.

Io non ho “recriminazioni” da fare, non ho risentimento alcuno. Constato soltanto che ci sono stati alcuni operatori di ingiustizia, come li definisce il Vangelo di Luca, che hanno ritenuto di impostare molte volte le indagini nella direzione erronea, e quindi depistante. Da ultimo con questo processo. Per me più che una trattativa, nella quale se v’è stata sono radicalmente escluso, c’è stato un intrigo, un nuovo tempo dell’intrigo iniziale, che dovranno chiarire in molti, rispondendo di alcuni comportamenti e di alcune scelte che hanno portato ad assurdi procedimenti giudiziari che mi tengono inchiodato da 28 anni. Si sono portati via la mia vita. Gli operatori di ingiustizia hanno diritto di far questo? Ovviamente mi riferisco ai magistrati inquirenti, non a molti dei giudicanti, dei quali ho un’opinione diversa e quindi stima, e non soltanto perché mi hanno assolto, sostenendo un compito improbo e difficile, ma perché hanno saputo resistere all’elevatissima intensità della pressione esercitata da parte dell’accusa, con l’apporto correlato del circuito mediatico-giudiziario, e hanno mostrato di avere come unico obbiettivo la ricerca della verità, salvando la funzione della giurisdizione dai rischi della degenerazione a strumento politico. Il vero problema, infatti, è l’“ingiusta giustizia” per il profilo del ruolo assunto da alcune procure, in particolare quella di Palermo.

In effetti, anche nel suo caso gli organi di informazione sembrano aver agito come megafoni delle accuse dei pm e come strumenti di gogna.

Basti considerare che il Corriere della Sera, La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, solo per nominare tre giornali, non hanno riportato la notizia della mia assoluzione, salvo un breve cenno disperso tra le cronache. Eppure, all’epoca, avevano riportato con pagine intere la notizia della mia incriminazione. Anzi, alcuni giornalisti avevano persino svolto il ruolo di coautori dei testi dell’accusa. Pensi a Marco Travaglio, che ha recitato una pièce ai pubblici ministeri seduti teatro in prima fila. Era la traccia della loro requisitoria. O anche di più.

Lei ha subìto l’onta di trascorrere, in via preventiva, nove mesi in carcere e altri tredici agli arresti domiciliari.

Di quella esperienza oggi preferirei non parlare, perché non amo né il quietismo né il pietismo. Quando vorrò dire qualcosa sull’esperienza carceraria lo farò in maniera oggettiva, non per contestarla, ma per metterla in discussione di fronte alla opinione pubblica, cioè alla consapevolezza civile della comunità. Però le vorrei far presente solo una cosa: mentre ero in carcere mi è stato diagnosticato un cancro, e sono stato ricoverato, uscendo dal carcere, all’Ospedale San Camillo soltanto dopo la visita in cella del presidente Francesco Cossiga. Basta questo, chiudiamola qui.

Lei non è risentito nei confronti dei pm. Ma il modo con cui le accuse contro di lei sono state demolite in sede di giudizio nel corso degli anni è impietoso. Nel 2008 il pg presso la Corte di Cassazione, nel chiedere la sua assoluzione, disse che la precedente sentenza di condanna costituiva «un esempio negativo, da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta». Quando nel 2015 fu assolto nel processo di primo grado sulla trattativa, il giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella, parlò di «prove inadeguate», «suggestiva circolarità probatoria», «interpretazioni di colpevolezza indimostrate». Ad accusarla sono stati i pm Vittorio Teresi, Teresa Principato, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene.

Sì, questi sono gli eroi dell’accusa. Vorrei invitare i giovani che entrano in magistratura nell’ufficio dell’accusa a non aggregarsi a gruppi precostituiti e a non fare mai passivamente proprie le pietanze apparecchiate da altri. Ah, poi perché omettere Gian Carlo Caselli?

Si è chiesto i motivi di questa lunga persecuzione mediatico-giudiziaria?

Credo che tutta la vicenda giudiziaria che ha investito la mia vita a partire dalla fine del 1991, con tappe processuali che si sono tutte concluse in maniera positiva e a me favorevole, sia collegata a un unico ceppo. Allora la domanda che mi sono fatto in questi anni, e che mi faccio ancora oggi, è: qual è l’intrigo nel quale è stata imbrigliata la mia vita? La domanda, con la relativa risposta, investe la cronaca dei fatti politici di grande rilievo che si sono susseguiti in questi anni, soprattutto nel periodo che va dal 1978 al 1994. Questi fatti politici hanno alcuni episodi decisivi.

A quali fatti si riferisce?

Il primo, che poi è il penultimo, è la nomina del dottore Giovanni Falcone a direttore generale degli affari penali al ministero della Giustizia. La nomina chiudeva il periodo di insuccessi ai quali il Consiglio superiore della magistratura aveva condannato Falcone, e metteva quest’ultimo al riparo dal contrasto che proveniva da una parte della magistratura e anche da una parte della sinistra. Si metteva in dubbio che Falcone potesse continuare sulla linea della perseveranza che lo aveva contraddistinto quando, succedendo a Rocco Chinnici, aveva gestito l’ufficio istruzione di Palermo e il pool antimafia, portando a conclusione il maxi-processo.

Perché la contestazione a Falcone?

Perché da alcune parti, e qui c’è una strana coincidenza tra mafia e antimafia, si attendeva che Falcone toccasse il cosiddetto “terzo livello”. Tuttavia Falcone, interrogando gli imputati e i pentiti, e sulla base dell’approfondita conoscenza della fenomenologia mafiosa acquisita nel corso degli anni, era giunto alla conclusione che non vi fossero connessioni tra mafia e politica del tipo “terzo livello”, argomento strumento di polemica politica. L’episodio culmine era stato quello che coinvolse il falso pentito Giuseppe Pellegriti, che alla fine degli anni Ottanta accusò Salvo Lima (all’epoca europarlamentare della Dc e uomo di Giulio Andreotti in Sicilia, ndr) di essere il mandante dell’omicidio del governatore della Sicilia Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio 1980. Sin dall’inizio Falcone, nelle indagini di sua competenza su questo assassinio, non aveva escluso alcuna ipotesi, ma la sua capacità di osservazione e di analisi lo aveva condotto a concludere che Lima non c’entrava niente con quella vicenda criminale, e che anzi, uccidendo Mattarella, e prima di lui Michele Reina (segretario provinciale di Palermo della Dc, ucciso il 9 marzo 1979, ndr), la mafia stava lanciando un’intimidazione di tipo terroristico alla politica, anche a Lima, e comunque allo Stato. Lo so che oggi è imprudente, visto il consolidato della narrazione della cosiddetta antimafia, dire qualcosa che conduca alla difesa della memoria di Lima, ma su questo è venuto il tempo di aprire una riflessione seria.

Cosa accadde in seguito?

Dopo la conclusione positiva del maxi-processo Falcone, come direttore generale degli Affari penali (nominato dal governo Andreotti nel febbraio 1991), aveva elaborato i disegni di legge rivolti alla modifica ordinamentale delle procure, perché si era reso conto che la frammentazione delle competenze tra diverse procure e diversi organi di polizia giudiziaria non consentiva di affrontare il contrasto alla criminalità con una visione unitaria e ispirata alla ricerca della verità. Quindi proponeva l’introduzione della procura nazionale antimafia e delle procure distrettuali antimafia, quindi della Dia, e inoltre tentava di introdurre una disciplina della gestione dei collaboranti (tema delicatissimo che involgeva un giudizio sulla gestione tenuta dall’Alto Commissario per la lotta alla mafia, del quale si prevedeva, invece, la soppressione) che si annunciavano in larga massa. Questa proposta otteneva, invece, l’opposizione fortissima delle correnti della magistratura, segnatamente di alcuni magistrati a Palermo che poi diventeranno i paladini della cosiddetta antimafia, e soprattutto del partito post-comunista. Falcone si era ritrovato in una condizione di grande isolamento. In quel momento Cosa nostra compie la strage di Capaci in cui egli viene ucciso, e successivamente la strage di Via D’Amelio in cui perisce Paolo Borsellino.

Le stragi produssero conseguenze importanti anche a livello politico.

Alle elezioni politiche dell’aprile 1992 la Dc aveva preso il 32 per cento dei voti. Dalle elezioni del 1992 a oggi la soglia del 32 per cento non è quasi mai stata raggiunta da nessun partito o movimento che ha occupato la scena politica. Quindi la Dc era ancora un partito forte, che poteva trovare con Bettino Craxi un rapporto di collaborazione così forte da consentire al leader del Psi la presidenza del Consiglio. Invece, sul fronte milanese si apre Tangentopoli e sul fronte siciliano ci sono le stragi. In seguito alla strage di Capaci c’è un’accelerazione della scelta del presidente della Repubblica. Viene eletto Oscar Luigi Scalfaro, un candidato certamente democristiano e di grande prestigio, ma è una figura che trova il sostegno del partito comunista che in quei mesi aveva cambiato denominazione in Pds. Questa linea politica porta alla formazione dei governi Amato e Ciampi, e all’inizio del declino della Dc, che si spacca nel luglio 1993, tra una parte che propende per i postcomunisti e una parte che, poi, sceglierà il centrodestra. All’interno di questo mosaico c’è la vicenda giudiziaria che mi colpisce, con delle accuse inconsistenti che partono da un falso pentito, tale Rosario Spatola. L’indagine viene archiviata dopo l’interrogatorio di Spatola fatto da Borsellino, allora procuratore della Repubblica di Marsala. Dopo questa archiviazione, un anno dopo, a cavallo dell’arrivo di Gian Carlo Caselli alla guida della procura di Palermo, sono stato riscritto di nuovo nel registro degli indagati sotto il grande titolo del “416 bis”. E qui c’è un episodio che bisognerà chiarire.

Quale?

Si instaura una collaborazione tra Vito Ciancimino e i carabinieri del Ros. Nel memoriale consegnato ai Ros, Ciancimino parla di tutti i politici della Democrazia cristiana. Di tutti parla bene. Solo di tre parla male: Lima, che verrà ucciso, Andreotti, che verrà processato per il 416 bis, e il sottoscritto, che probabilmente viene iscritto nel registro degli indagati a quel tempo. Ecco l’intrigo. Anche perché l’avviso di garanzia che mi verrà consegnato nel 1994, un anno dopo, non contiene fatti di rilievo penale, impone una concezione del 416 bis di tipo giurisprudenziale, cioè forte di qualche precedente giurisprudenziale e dell’adattamento apportato dallo scriba che deve guadagnarsi qualche ruolo nella novella procura rivoluzionata. Così si introduce uno strumento “tuttofare”, un “passepartout” che permette di sbattere in galera, tanto poi si vede… (i magistrati dell’accusa non rispondono mai ad alcuno dei loro errori. La buona fede e l’indennità dal rischio della responsabilità è garantito dall’obbligatorietà dell’azione penale). Per l’ordinanza di custodia cautelare del 1995 gli inquirenti di Palermo si avvarranno delle dichiarazioni del pentito Gioacchino Pennino (uomo di fiducia di Vito Ciancimino), gestito proprio dal Ros di Mori, che in quel tempo collaborava attivamente e proficuamente con la procura palermitana di Caselli.

Eppure non si può dire che durante la sua attività politica lei non avesse lanciato messaggi contro la mafia. Nella campagna elettorale del 1991 tappezzò la Sicilia con dei manifesti con su scritto: «Contro la mafia, costi quel che costi».

Nel 1991, da responsabile politico in Sicilia della Dc, così come nel 1985 al momento dell’avvio, ho tenuto una linea di condotta apertamente di contrasto alla mafia. Eravamo nella fase conclusiva del maxi-processo e bisognava sostenere apertamente e con segni evidenti l’azione del pool antimafia. Era l’evidenziazione di una scelta di campo, non un giuoco. Ma le vorrei dire anche un’altra cosa.

Prego.

Si vadano a prendere gli atti parlamentari. Nel febbraio del 1980 alla Camera, il sottoscritto, come vicepresidente del gruppo parlamentare della Dc, presentò una mozione con cui si concludevano i lavori di ben due commissioni antimafia, che per due legislature non avevano concluso i lavori. Si vadano a riguardare quali erano le proposte di quel documento presentato e approvato dall’aula. Ne cito due: l’introduzione del 416 bis, che poi è stato applicato contro di me, e l’introduzione di livelli di coordinamento e di direzione dell’azione giudiziaria, che è la linea che poi svilupperà Falcone con i provvedimenti approvati dal governo Andreotti, del quale sempre il sottoscritto faceva parte. Non li ha approvati il circoletto dell’antimafia di mestiere. La lotta alla mafia, nei passaggi essenziali, ha visto un mio impegno e un mio apporto, che hanno provocato l’avversione da parte della mafia. Mi sono dovuto anche caricare l’onere politico del Congresso di Agrigento del 1983, quando Ciancimino fu escluso dagli organi di partito. E ne ebbi un premio: con il governo successivo alle elezioni del 1983 non fui riconfermato ministro. Si disse allora, da parte di autorevoli esponenti della Dc, che la Sicilia non poteva sostenere «il mio peso». Non ho mai ricevuto spiegazioni da chi di dovere. Però nel 1985, quando il pool antimafia diretto dal dottore Falcone portò a conclusione le indagini giudiziarie con l’ordinanza-sentenza che avviò il maxi-processo, mi si chiese di gestire come commissario la Dc siciliana, con il risultato indiscutibile dei successi elettorali del 1985, 1986, 1987 e 1991, quando mi dimisi da commissario (e al mio posto da Arnaldo Forlani, segretario nazionale, fu nominato Sergio Mattarella). E soprattutto con una linea politica che fu di aperto sostegno al maxi-processo e all’azione di Falcone. Come vede ho offerto allo storico, cioè all’osservatore disinteressato in quanto alla verità, la traccia fondamentale di una ricostruzione oggettiva (per fatti e non per induzioni) della storia di quel periodo, e anche mia personale.

Come lei, centinaia di persone innocenti sono ogni anno vittime della malagiustizia e della gogna mediatica. Come correggere queste distorsioni del nostro sistema giudiziario?

Fin tanto che ci saranno forze politiche che temeranno alcuni magistrati delle procure questo sarà un argomento impossibile.

Cosa ne pensa delle turbolenze politiche che stanno attraversando il paese?

Si fanno governi per sopravvivere e mantenere le cose come stanno, ma nessuno intende affrontare l’intreccio tra la crisi istituzionale e la crisi economica e finanziaria del paese. Mi limito a dire questo, ma è altro argomento.

@ErmesAntonucci

Foto Antonio Nardelli/Shutterstock

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