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Make Italy Great Again

E se alla fine il disprezzatissimo “protezionismo” di Trump si rivelasse un vantaggio per l’Italia e per il suo export malconciato da anni di euro forte?

Alan Patarga
03/04/2017 - 3:00
Esteri
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Lo schifano nelle cancellerie. Lo detestano nei centri studi. Dicono che il suo approccio bilateralista sarà la fine del commercio mondiale e quindi del benessere come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni. Sotto sotto però sono in molti a fare il tifo per Donald Trump. Dicono i bene informati a Bruxelles – e la cosa è stata prontamente riportata dall’edizione europea del magazine Politico – che non sono pochi i politici del Vecchio Continente, specie tra quelli di sinistra, a ragionare grossomodo così: se l’America di Trump non è più presentabile, l’Europa potrà “finalmente” (secondo loro) liberarsi dell’ingombrante tutela di Washington, che nel bene e nel male ha condizionato la politica dell’Occidente dalla fine della Seconda Guerra mondiale fino ai giorni nostri. Difficile che vada davvero così: lo stesso The Donald ha ribadito più volte, anche ricevendo Angela Merkel, di credere ancora nella Nato. Ma un conto sono le alleanze e quel che ruota intorno alle armi, un conto sono gli affari. È lì, concordano in molti, che la partita si farà più fluida e i fronti si scomporranno per ricomporsi diversi da come li abbiamo conosciuti finora.

Parlare di protezionismo di Trump, che pure alzerà alcuni dazi, è tutto sommato improprio: il presidente degli Stati Uniti ha ambizioni molto più vaste. L’obiettivo della sua presidenza è archiviare l’epoca del multilateralismo degli organismi sovranazionali (leggi Wto), per tornare a confronti bilaterali tra partner commerciali in cui gli Stati Uniti possano spuntare condizioni più vantaggiose, facendo leva sul loro peso economico e politico. Una strategia che in realtà potrebbe avvantaggiare l’Europa e, in particolare, l’Italia.

Il primo a dirlo senza troppo nascondersi è stato Sigmar Gabriel, ministro dell’Economia e vicecancelliere tedesco. «Se Trump si imbarcasse in una guerra commerciale con l’Asia o il Sud America – le sue parole in un’intervista al quotidiano finanziario Handelsblatt – questo ci aprirebbe nuove opportunità (…) Per l’Europa vedo opportunità soprattutto se Trump decidesse di non distanziare se stesso soltanto dalla Cina, ma da tutta l’Asia. L’Europa, in tal caso, dovrebbe sviluppare rapidamente una nuova strategia asiatica per occupare gli spazi che l’America lascerebbe sguarniti».

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Ma al di là delle dichiarazioni d’intenti, ai tedeschi l’“America First” di Trump fa effettivamente un po’ paura. La crescita della Germania, d’altro canto, dipende molto dall’interscambio commerciale con gli Stati Uniti e secondo i calcoli dell’Ifo di Monaco di Baviera, forse il più autorevole centro di studi economici tedesco, le misure annunciate in campagna elettorale dal presidente repubblicano potrebbero mettere a rischio un milione e mezzo di posti di lavoro in tutto il paese.

La “fame” in arrivo
Diversa la situazione dell’Italia. Il più chiaro, in questo senso, è stato di recente l’economista tedesco Daniel Gros, direttore del Centre for European Policy Studies di Bruxelles. «L’economia americana – ha scritto – è già vicina alla piena capacità, con un tasso di disoccupazione inferiore al 5 per cento» e le stime di un’ulteriore crescita economica (il neo segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha parlato nei giorni scorsi di un prodotto interno in crescita al 3-3,5 per cento entro agosto, grazie al taglio delle tasse) si possono leggere anche così: per quanto produca, una nazione che diventa più ricca dovrà per forza di cose fare ricorso alle importazioni, per naturale “fame” di nuovi beni e servizi.

 

Tutto questo, in un contesto che promette un percorso verso la parità tra euro e dollaro che avvantaggerebbe ulteriormente l’export europeo e quello italiano in particolare. A dirlo è sempre Gros. Secondo l’economista tedesco, «l’effetto della svalutazione dell’euro è tre volte più forte in Italia che in Germania. Questo perché la domanda internazionale per le esportazioni dalla Germania, concentrata com’è sui beni strumentali, è relativamente impermeabile all’andamento dei prezzi», a differenza di quanto avviene per l’export italiano più “leggero”, costituito in larga misura dal tessile, dall’enogastronomia e dall’arredamento, che avrebbero pertanto importanti margini di crescita. Non solo: l’aumento delle produzioni negli Stati Uniti, con la rilocalizzazione in patria di parecchi stabilimenti per non incorrere in un regime fiscale sfavorevole, porterebbe con sé la necessità per le aziende americane di dotarsi di nuove apparecchiature e di incrementare – è plausibile – le importazioni nei due settori trainanti per l’Italia in America: la meccanica e i semilavorati, che insieme rappresentano il 44 per cento di quel che vendiamo ogni anno agli statunitensi.

Poi ci sono fattori contingenti, ma non secondari. L’eventuale fuoco di sbarramento trumpista contro l’automotive europeo è una minaccia vera per Volkswagen, che si gioca la permanenza al vertice della classifica dei produttori mondiali, ma non costituirebbe un problema per l’italoamericana Fiat Chrysler, che anzi con General Motors condivide una special relationship con il presidente degli Stati Uniti.

Che Trump abbia messo intorno a un tavolo i Ceo delle tre sorelle di Detroit a pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca è stato molto più di un segnale: è stato un manifesto politico. E non a caso Sergio Marchionne, che in patria non ha mai nascosto le proprie simpatie renziane, a Washington appare ormai più che allineato al trumpismo economico. I risultati si sono visti presto: è bastato che il manager italo-canadese annunciasse ricchi investimenti in Michigan, che la Ford scendesse a miti consigli riportando produzioni dal Messico agli Stati Uniti e che la General Motors continuasse a fare la General Motors, perché Trump annunciasse l’addio alle regole stringenti sulle emissioni volute da Obama.

La Via della Seta
Non solo Stati Uniti. Anzi. Dal primo aprile sarà in vigore il Ceta, l’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e il Canada, siglato dopo sette anni di negoziati. Per l’Italia, un mercato facile da conquistare, più di quanto non abbia già fatto in passato, perché i nostri brand e prodotti possono contare su un’importante quinta colonna: oltre un milione e mezzo di italo-canadesi, di cui circa la metà concentrati nell’area di Toronto, la città più ricca e dinamica del paese.

Poi c’è il negoziato europeo con il Giappone, che dopo quattro anni di trattative potrebbe terminare entro la fine del 2017. I dati dell’export italiano extra Ue dicono, d’altronde, che le nostre merci viaggiano sempre più spesso verso nuovi lidi, nuovi almeno rispetto alle destinazioni di un tempo: a febbraio 2016, ha fatto sapere l’Istat pochi giorni fa, su base annua sono aumentate soprattutto le vendite verso Cina (+31,6 per cento), Russia (+25,6 per cento), Mercosur (+9,2 per cento) e Asean (+6,4 per cento), mentre quelle verso gli Stati Uniti sono cresciute appena del 3,7 per cento. Con numeri così è facile capire come l’occasione più importante, per l’Italia, resti l’affermazione sul mercato cinese.

350 Alfa Giulia in 33 secondi
Nell’ultimo viaggio istituzionale a Pechino del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, le aziende e le università italiane al seguito hanno siglato tredici accordi per un valore complessivo di 5 miliardi di euro. Ancora pochi, rispetto alle praterie che potenzialmente possono schiudersi all’export italiano. Ma un primo passo importante: al di là delle riserve per l’evidente dumping che le aziende occidentali (italiane incluse) subiscono, e al di là anche delle perplessità sullo status di economia di mercato che Pechino pretenderebbe di vedersi riconosciuto, rimane il mero e potente dato numerico. La Cina ha oggi oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti. Di questi, appena 450 milioni sono veri consumatori, capaci di inserirsi in una dinamica commerciale con il resto del mondo. I margini sono, evidentemente, ancora molto ampi. E le potenzialità del brand Italia superiori a quanto noi stessi possiamo immaginare. E non è retorica del Made in Italy.

Un esempio solo può bastare: Alibaba, la piattaforma di e-commerce fondata da Jack Ma leader nelle vendite online in tutta l’Asia, ha da poco stretto un accordo con Fca per la valorizzazione del marchio Alfa Romeo. Attraverso una delle sue piattaforme business-to-business, lo scorso 21 marzo, il colosso cinese ha piazzato 350 Alfa Giulia Milano Limited Edition. Per venderle tutte, sono bastati 33 secondi. 

@apatarga

Foto Ansa

Tags: americaCinafiatimprese
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